“Saputo della morte di Matteo, mio coscritto e amico d’infanzia, ho voluto stare qualche ora in sua compagnia, scrivendo un collage di ricordi, di cose da poco (come un concerto dei Blondie…) ma che magari possono piacere a qualcuno“. Sono le parole con cui il monzese Pino Villa ha accompagnato inviandolo al Cittadino un lungo ricordo di Matteo Barattieri, morto in un incidente stradale negli Stati Uniti il 26 agosto.
In ricordo di Matteo Barattieri: la notizia dell’incidente
“Venerdì 26 agosto 2022, verso sera. Un amico mi scrive su whatsapp: hai saputo di Matteo? Intuendo che non può trattarsi di buone notizie, immediatamente googlo e leggo. Catastrofe. Magone. Ricordi, messaggi informativi agli amici, di cui leggo le risposte; e di nuovo l’occhio s’inumidisce, la gola s’annoda.
In ricordo di Matteo Barattieri: il salto indietro nel tempo
È il giugno del 1976. Siamo nel cortile del condominio di via Dante dove Matteo ha sempre abitato, così come la mia nonna che vengo a trovare ogni giorno, al punto che mi sembra di avere due case, due residenze. Il caseggiato è pieno di ragazzini (pieno!) che attendono con ansia che arrivino le tre, l’ora fatidica in cui ‘si può scendere’ (a giocare in cortile). Tutte le classi sono rappresentate (non solo anagrafiche, anche sociali), tutte le corporature, tutte le altezze. Un anno in più può fare una differenza enorme.
Non c’è bisogno di whatsapp, all’ora stabilita dal regolamento siamo tutti giù in cortile e si gioca a pallone, si gioca al gioco più bello del mondo, quello a cui tutti possono partecipare (ma non le bambine, per la verità, perché loro non ce lo chiedono, e noi non glielo proponiamo di certo). Non FIFA 2022, questa è the real thing: si corre, si cade, ci si sbuccia le ginocchia; qualcuno rompe le stanghette degli occhiali e si dispera (“Adesso mia mamma mi mena!”), non c’è l’abbondanza di… no, ‘di oggi’ forse non si può più dire, diciamo di ieri. Ogni tanto il pallone ‘va di là’: non è che muore, semplicemente finisce oltre il cortile, oltre il condominio; allora si fa scaletta a qualcuno e lo si manda al recupero. Dopo qualche istante di attesa nervosa, di colpo si sente un rimbalzo: pallone recuperato, si può continuare!
In ricordo di Matteo Barattieri: l’estate e il pallone
Ora siamo su doppio turno, si gioca anche la mattina: le scuole sono appena finite, ci sono davanti più di tre mesi di vacanza, un tesoretto di giorni di svago e di libertà dagli obblighi scolastici che finiremo di consumare il 30 settembre. Anche il campionato europeo di calcio è appena finito, a sorpresa è stato vinto dalla Cecoslovacchia che in finale ha battuto la Germania Ovest, ai calci di rigore, l’ultimo dei quali è stato magistralmente eseguito dal baffuto fuoriclasse Panenka, che per l’occasione ha inventato il cosiddetto cucchiaio, il tiro lentissimo a scavetto che può fare di te un genio del calcio o un perfetto idiota, senza vie di mezzo. Tutti noi ragazzini abbiamo tifato per gli slavi, quasi in automatico, per via della Storia, ancora relativamente recente, che vuole i tedeschi identificabili col nazismo e, in definitiva, con il Male.
Matteo commenta con noi le partite trasmesse dalla RAI, e il suo cuore di appassionato batte forte per questa compagine di sconosciuti lavoratori socialisti balzati di colpo dall’oscurità alla gloria. Rievoca le azioni, ricorda i nomi, anche quelli dei gregari. Il suo preferito è il capitano, il difensore Ondrus, un marcantonio che interpreta il ruolo di ‘libero’ (che oggi credo non esista più, come il centromediano metodista) con grande dinamismo e licenza di attaccare. Quando prende palla, e si fa la radiocronaca da solo (come quasi tutti noi), Matteo è Ondrus, Ondrus. Corre come un dannato, Ondrus, più di tutti nel cortile; a volte è inafferrabile. In quel tempo lo guardo dal basso verso l’alto, come un campione, anche se abbiamo la stessa età. Se sono in squadra con lui, so che mi devo impegnare per essere all’altezza; se ce l’ho contro, so che sarà difficile vincere.
In ricordo di Matteo Barattieri: gli anni ’80
Ora siamo all’inizio degli anni ’80. Siamo troppo grandi per giocare in cortile, si gioca al parco, nel grande prato davanti alla Cascina del Sole. Alle due del sabato i giocatori arrivano da ogni parte della città e della Brianza, da soli, a coppie (magari di fratelli, ricordo due che chiamavamo ‘gli Aston Villa’, per via della maglia che usavano), a gruppetti (come il trio che comprendeva il futuro giornalista Mario Bonati, detti ‘gli Adidas’ per il loro elegante completo rosso con le classiche tre strisce in bianco); in breve tutto lo spazio disponibile si satura, sette, otto campi da undici ci stanno tutti, e chi non trova capienza può andare oltre, nel prato prospiciente la sede dei Carabinieri a cavallo. Oggi, invece, il massimo che può capitare è di vedere una sola partita, e qui mi riesce facile vedere una correlazione con i risultati della nazionale di calcio.
Matteo gioca nella squadra più forte, fatta di ragazzi che giocano insieme fin dai tempi delle partite d’infanzia, sul campo in pendenza (eh sì…) dei poveri Boschetti, davanti all’attuale sede dell’Assolombarda. Con loro qualche altro amico e un paio di adulti, fra cui il mitico Fabio Vallorani, detto Falcao per l’impressionante somiglianza con l’asso brasiliano della Roma. Sono ben organizzati: hanno una vera divisa (maglia arancio con la scritta Magco Bar, calzoncini neri) e persino una porta in legno che ogni sabato si portano da casa: la montano prima della partita e via, si può giocare contro di loro e provare a segnare in una vera porta. Ma bisogna essere bravi, perché loro sono forti in tutti i reparti, si direbbe oggi, sempre con questo gergo militaresco che ci ricorda come in fondo il calcio sia una battaglia sublimata; i loro avversari, invece, sono in genere degli eserciti raccogliticci, magari con delle buone individualità, ma privi di amalgama.
In ricordo di Matteo Barattieri: passione e lealtà
Fra Matteo e il suo amico Stefano, un altro segaligno dal passo breve ma ad alta frequenza che gioca con una maglia azzurrina dell’Amburgo e viene per questo chiamato Hrubesch, è sempre una gara a chi macina più chilometri: sono due forze della natura. E anche gli altri sono bravi, anche Téga, per esempio, il centravanti che non ama correre e va servito sui piedi, altrimenti s’incavola; ma i suoi sono piedi che sanno trattare bene il pallone e possono fare male.
I fisici sono cresciuti, si gioca col pallone di cuoio e con ‘i grandi’, cioè gli adulti, giovani e meno giovani (come Ossi, Ago, Felipe, Barbera…), che formano le squadre. Ogni tanto si litiga, è inevitabile, e in questi casi Matteo è sempre… ben lontano dalla disputa! Lui gioca volentieri, lo fa seriamente, impegnandosi al 100% e con grande lealtà, non è tipo da mezzucci, non è lì per discutere, accalorarsi, men che meno per azzuffarsi con qualcuno. Questo mi piace tantissimo! E ho sempre pensato che il modo di stare in campo di un giocatore dica moltissimo della sua personalità.
In ricordo di Matteo Barattieri: seconda metà degli anni ’80, lo studio e le priorità
Gli ultimi blocchi di ricordi sono della seconda metà degli anni Ottanta. Abbiamo formato una squadra vera e partecipiamo a un campionato vero, un amatoriale. In questa fase per Matteo le cose sono un po’ cambiate: la passione è invariata, ma lo studio lo prende molto, le priorità sono altre; il fisico è sempre asciutto ma la forza non è più la stessa di prima. L’impegno è troppo oneroso, e così dopo un paio d’anni lascia perdere.
Ci vediamo la domenica mattina, sul meraviglioso campo del Polo, nell’area dell’ex Ippodromo, che d’un tratto è stata aperta al gioco del calcio. Un biliardo, altro che i campi spelacchiati della Cascina del Sole! Si è formato un bel giro, gente appassionata che gioca bene, come Dante, centrocampista di classe che ha giocato anche in serie C2 con la Casatese, l’elegante Aldo, del negozio di dischi ‘33’, il colossale Ivo, che non ci sta a perdere e non molla mai niente.
Matteo è sempre appassionato, gli piacciono queste partite di buon livello ma senza pressione: perfette per continuare a impegnarsi al 100%! Nel tempo siamo diventati cultori del calcio inglese e all’inglese, della sua cultura, delle sue storie, della sua estetica. Matteo è molto informato, io mi difendo bene. Citiamo insieme nomi, episodi (memorabile il suo racconto dell’allenatore Tommy Docherty licenziato dal Manchester United per una tresca con la moglie del massaggiatore), persino spezzoni di telecronache, specie quello in cui John Motson, il Bruno Pizzul d’oltremanica, esclama ammirato davanti a una prodezza di Charlie George, un centravanti dell’Arsenal degli anni Settanta con la faccia da schiaffi: “He’s done it!”. Ci piacciono la pioggia e il fango; ci piace correre, inseguire, ripiegare, lanciarci, sovrapporci; buttarci in scivolata, conquistare il pallone e far ripartire l’azione è il nostro gesto preferito. La tattica ci ripugna, per noi si vince segnando un gol in più degli avversari. Siamo mediani, terzini, cursori; non ci piacciono quelli che non corrono e credono di cavarsela facendo i numeri da foca col pallone. Rivedo il povero Dante (che a calcio sapeva giocare davvero) sacramentare con gli occhi al cielo, dopo che Matteo gli ha letteralmente estirpato il pallone dai piedi lanciandosi in scivolata sull’erba bagnata: “E se mi prendevi?”; a pochi passi da lui c’è Matteo che sogghigna con l’aria di dire ma cosa vuoi, ho preso il pallone, non ti ho neanche toccato, ed è vero, l’intervento è stato chirurgico, non ricordo di aver mai visto un suo fallo. Poi ci scambiamo un rapido cenno d’intesa (“He’s done it!”) e ci ributtiamo nella mischia.
Ogni tanto giochiamo a calcio a 5, o a 7; il calcetto comincia a prendere piede. Partecipiamo a un torneo e io e Matteo scegliamo di chiamare la nostra squadra ‘La Perfida Albione’, siamo proprio in fissa con gli inventori – e sedicenti maestri – del calcio. Di qualche partita esistono delle riprese video: in uno spezzone si vede Matteo che, dopo un nostro gol segnato con un’azione corale molto rapida e ben congegnata, sorride soddisfatto e fa ruotare le mani davanti a sé, come a dire, avanti così, corriamo, corriamo, all’infinito, non c’è altro modo.
In ricordo di Matteo Barattieri: la vita adulta
Poi è cominciata la vita adulta, e lì ci siamo persi di vista, anche se per qualche anno ho abitato di nuovo in via Dante. Potevamo, incrociandoci sulle scale, generare il massimo di contrasto in termini di abbigliamento: uno in giacca e cravatta, l’altro vestito come per andare al parco, calzoncini amaranto, maglia biancoverde del Celtic, o blu della Scozia. E magari aveva appuntamento con l’assessore! Ci vogliono tanta personalità e tanta autorevolezza, derivante dalla competenza, per potersi permettere certe licenze; non so quasi nulla del suo percorso professionale nella vita adulta, ma credo che questo ‘diritto’ non scritto se lo sia ben guadagnato.
Mi addolora pensare che la velocità (dell’auto pirata) ha ucciso la lentezza dell’uomo che, a differenza di quel che faceva giocando a pallone, non correva mai, ma camminava, o al massimo andava in bici. Però mi rinfranco pensando a una vita di grande originalità e ricchezza di contenuti: Matteo è stato un pezzo unico, questo è fuori di dubbio, e mi piace pensare che, pur in mezzo a vicissitudini familiari anche tragiche, abbia vissuto dettando lui le condizioni alla vita, facendo quel che gli piaceva fare, e non il contrario.
In ricordo di Matteo Barattieri: il suo legame col Parco
Davanti a me ho la copia di un suo libro, il bellissimo ‘Sentieri nel Parco’. Ho letto che qualcuno ha già proposto che un qualche punto del polmone verde che è il vero pregio di questa città venga intitolato a Matteo, che ne ha conosciuto, esplorato, osservato, mappato e goduto ogni centimetro quadrato e ogni abitante, umano e non, non solo ricevendo ma anche restituendo, partecipando alla sua difesa (ricordo ancora lo shock di vederlo sulla copertina di Autosprint, con le insegne del WWF!) e alla divulgazione delle sue bellezze naturalistiche: trovo che sarebbe giusto e bellissimo. Ciao Matteo, grazie di esserci stato“.