L’intervista a Beatrice Salvioni pubblicata sul Cittadino del 13 aprile 2023, a meno di un mese dalla pubblicazione del romanzo “La Malnata”. È finalista al Premio letterario Brianza nella narrativa edita.
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«Scusi, ma lei è la scrittrice?». Una voce si affaccia da dietro l’arengario: la pancia un po’ all’arrembaggio difesa da un paio di bretelle, un mozzicone tra le labbra. «Lei è la scrittrice? L’ho vista ieri sera su Raitre». «Mmm, forse, sì, be’, sono io». Ah ecco, risponde il signor Giuseppe a Beatrice Salvioni, che vinta (ma non troppo) la timidezza, rilancia: «Legga il libro e poi mi fa sapere se le è piaciuto».
Intervista alla scrittrice Beatrice Salvioni, la storia della Malnata
E un attimo dopo, date le spalle al palazzo civico: «I miei fan», senza che l’essere così riconoscibile nella sua città, in mezzo alla strada, le sia ancora confortevole. D’altra parte sono passati un paio d’anni da quando è passata sulle cronache culturali italiane, poi ne ha dovuto infilare sulle spalle almeno un altro di attesa prima che il suo romanzo di debutto, “La malnata”, arrivasse in libreria con Einaudi.
In Italia. Perché poi nel resto del mondo, il 21 marzo, è stato pubblicato in altri sei Paesi, che presto saranno otto, ma la traduzione è in corso in 32 lingue. E lei ha 28 anni.
«Lo scorso Natale i miei parenti iniziavano anche a mettere in dubbio che fosse vero: ma sei sicura che poi lo pubblicano davvero?».
Una tonnellata e mesi d’ansia, perché la pubblicazione era stata rinviata al mese scorso per le edizioni internazionali. E ritrovarsi tra le mani una storia che inchioda il lettore alle prime pagine: uno stupro, un omicidio, due ragazzine. Loro sono Francesca, famiglia borghese, la brava ragazza, e Maddalena: la malnata, appunto. La loro è una storia di emancipazione, di ribellione e di crescita, fuori dai vincoli, in una Monza livida di fascismo, nel 1936.
«Sono maturate in me per tanto tempo, entrambe – racconta la scrittrice – Anzi, fin da piccola, quando mia nonna mi diceva che sarei dovuta nascere maschio perché, diceva, le femmine non possono fare niente, nella vita ci sono incastrate. E io allora mi lasciavo affascinare dalle storie di ragazzine che facevano cose impossibili, che diventavano pirati, combattevano imperi».
Intervista alla scrittrice Beatrice Salvioni, “fare sentire la propria voce”
Anche perché, ammette, un po’ Francesca lei lo era: spaventata dalle cose, ossessionata dall’essere la brava ragazza – gli studi regolari dal collegio Bianconi al Dehon, quindi l’università Cattolica. Poi le sue Maddalene sono arrivate, un po’ per volta, ed è arrivata anche Maddalena nelle sue pagine: quella dodicenne che tutti consideravano un po’ strega, che – si diceva tra le sponde del Lambro e nei salotti del centro – faceva maledizioni.
«Quelle che lei allora usa come autodifesa: lo credono tutti? E allora lo credo anch’io», per farsene uno scudo e, soprattutto, per non tacere.
«Il punto da cui sono partita. Perché sono due figure che tornano nelle cose che ho scritto e ora hanno preso corpo. Ma l’idea, il tema che mi interessava, è fare sentire la propria voce. Motivo per cui peraltro ricorre nelle mie storie l’immagine della lingua mozzata (incluse le tante che riempiono il racconto con cui nel 2021 ha vinto il Premio Calvino, ndr). Inizialmente Maddalena aveva un potere: quello di fare accadere le cose semplicemente parlando».
Poi la magia ha lasciato il posto alla realtà: le dicerie, che la ragazza trasforma in potere reale. «Quando ho pensato a dove e quando ambientare il romanzo ho scartato quelle più scontate, come il Seicento. Mi sono chiesta quando le donne, le ragazze, erano messe a tacere. Quando l’uomo forte era la figura dominante. E allora il Ventennio fascista. Monza? Mi ha permesso di sovrapporre la cartografia della mia infanzia: le strade che io facevo, da casa di nonna al duomo, i luoghi, i giochi nel Lambro, al Parco».
Intervista alla scrittrice Beatrice Salvioni, l’accumulo delle fonti (incluso il Cittadino)
Poi l’accumulo delle fonti: la saggistica sulla vita quotidiana sotto il fascismo, le lettere, la voce delle persone e gli archivi dei giornali, il Cittadino incluso. Il contesto in cui fare vivere l’amicizia di due ragazze, «con una figura catalizzatrice, potendo parlare così della crescita, scoprirsi donna e, come donna, diventare grande, in una società sessista e maschilista. Che sono temi attuali allora come ora. La “malnata” le girava nelle orecchie fin da piccola, quando il “malnat” era il padre bambino, nei racconti della nonna, quando rompeva i gerani della zia ma «poi ci sono anche i figli illegittimi di Ludovico il Moro», originariamente, quelli che la gente chiamava malnati, nati male: il soprannome perfetto per qualcuno che le persone considerano sbagliato dalla nascita.
«Quando tutto mi è stato chiaro, ho preparato la scaletta della storia: sono così, ho bisogno di sentire che sia tutto sotto controllo. Per quanto poi, a volte, i personaggi “decidano” di fare quello che voglio» – saranno un po’ malnati anche loro. Un anno di scrittura, l’attesa. E ora il debutto internazionale, il romanzo che arriverà anche in Arabia Saudita («c’è da crederci? Una storia di ribellione femminile») e intanto si lavora alla sceneggiatura per una serie tv («stanno facendo un bel lavoro, è emozionante: sarebbe bello che girassero scene anche qui a Monza»).
Intervista alla scrittrice Beatrice Salvioni, collaborazioni e letture
Ora arrivano i commenti, le critiche, i complimenti. «Mi scrivono su Instagram per raccontarmi quanto abbiamo amato questo o quel personaggio, ed è magnifico. Ma c’è anche chi dice “se volevo leggere la Ferrante, avrei letto la Ferrante (“L’amica geniale”, ndr). Peccato che chi l’ha scritto abbia pubblicato il 19 marzo, due giorni prima dell’uscita del libro». Ma Beatrice Salvioni si aspettava tutto, e forse anche per questo si è iscritta a boxe. «Anche sei i pugni fisici fanno meno male».
Nel frattempo, nella sua vita torinese che ha scelto dopo avere frequentato la Scuola Holden, la scrittura, le collaborazioni (anche con il Premio Calvino), le letture. Per una prosa che dopo l’infanzia di Geronimo Stilton («li ho letti tutti, credo») e di fantasy, ha voltato pagina con Albert Camus («Lo straniero, una folograzione»), Salinger e Steinbeck («sì, tanta America») per poi ritrovare l’Italia con Calvino, Fenoglio, Pavese. «Ma grazie a Palahniuk ho scoperto Amy Hempel, e ho imparato tanto: con lei ho capito che non occorreva scrivere storie fantastiche, distopiche, lontane dal mondo. Che, piuttosto, è già tutto nella realtà», spesso altrettanto fantastica, o distopica.