La prima cosa che salta all’occhio osservando la maestosità del Cristo di Van Dyck è sicuramente il fatto che le finanze disponibili nelle tasche di un poeta non gli consentirebbero mai di acquistare un dipinto del genere.
Certo la categoria dei poeti non è l’unica a non potersi permettere un quadro di questo tipo ma pensandoci bene il fatto di poter comprare un’opera e poterla sfoggiare in salotto, non è una cosa che ritengo di particolare interesse. Le opere d’arte dovrebbero essere patrimonio comune perché solo così possono essere protette e libere di muoversi senza ostacoli legati alla volontà e ai capricci di un proprietario che non necessariamente è una persona dotata di gusto e intelligenza.
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Tra l’altro mi chiedo anche perché uno dovrebbe tenere un Cristo in anticamera o sopra il letto. Anche considerando che stiamo parlando di un quadro di un certo impatto, dipinto dal più famoso dei fiamminghi, farei fatica ad entrare in casa, poggiare il soprabito e il cappello e guardare Gesù Cristo rivolto al padreterno, catturato dalla maestria pittorica che ferma l’attimo prima della sua morte, dicendo: “cara sono a casa, è stata una giornata impegnativa, ci mangiamo una pizza?”.
Adesso però che ci rifletto bene, sono molti i pittori che si sono dovuti confrontare con la rappresentazione del Cristo. E ognuno di loro ha trovato il proprio motivo per dipingerlo. Van Dyck non teme di farci vedere il sangue che sgorga copioso dai polsi, le dita rattrappite nell’istante nel quale il corpo si contrae nell’ultimo slancio verso la sua fine. Il volto che si abbandona, il mondo che si oscura nella più tremenda delle tempeste che sta per iniziare. Solo il corpo è chiaro, pieno di luce. Solo il corpo è un elemento definito, anche la croce si dilegua nella potenza dei colori del temporale.
Tempo fa ho scoperto con piacere che i pittori costretti a dipingere il sacro hanno sempre cercato di esprimere se stessi, nascondendo idee personali tramite segni o simboli non concessi. Ne sono un esempio il culo del cavallo di Saulo che il Caravaggio mette in primo piano nella sua “Conversione di San Paolo”, contravvenendo alle regole che vorrebbero il Santo come protagonista dello spazio scenico e facendo infuriare i committenti dell’epoca o la teoria (affascinante ma controversa a onor del vero) per la quale l’assodato neoplatonismo di Michelangelo confermerebbe l’interpretazione inversa della creazione Dio-uomo ponendo Dio all’interno di una forma che ricorda il cervello, nel famoso affresco della Cappella Sistina.
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Seguendo questo percorso suggestivo, mi chiedo, da profano, se la luce del corpo del Cristo in questo dipinto non ci dica qualcosa in più oltre l’idea classica della potenza del redentore che è fonte di vita ed illumina gli uomini. Mi spinge a pensare, da profano (…l’ho già detto?) che forse l’attenzione sul corpo, che è l’unico elemento definito della scena, ci dica quanto il corpo e non lo spirito sia importante in questa vita, quanto tutto sia terreno, tremendamente umano.