Arte, leggere Van Dyck in mostra a Monza: «“Lemà sabactàni”: cercando un contatto con Dio»

Il Cristo in croce di Anton Van Dyck è in mostra a Monza (fino al 20 maggio). Il Cittadino ha chiesto ad alcuni curatori d’arte, artisti, poeti di leggere l’opera. Il primo è Alberto Zanchetta, direttore del Museo d’arte contemporanea di Lissone.
Monza Cappella Reale Van Dyck in mostra
Monza Cappella Reale Van Dyck in mostra Fabrizio Radaelli

Il Cristo in croce di van Dyck continua a parlarci a quattro secoli di distanza. Mentre è in corso la mostra alla Cappella reale della reggia di Monza, il Cittadino (media partner del progetto) ha chiesto ad alcuni curatori d’arte, artisti, poeti di leggere l’opera per noi. Il primo è Alberto Zanchetta, direttore del Museo d’arte contemporanea di Lissone.


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Johann Heinrich Füssli scriveva che «il drappeggio di Raffaello è d’ausilio al carattere; in Michelangelo avvolge la grandiosità; in Rubens è l’imponente manto della pompa». E nel caso di Antoon van Dyck, non è forse un attributo dell’angoscia?

In questa Crocefissione il drappo è appesantito dal proprio affastellamento e sembra in procinto di scivolare via dal corpo. Da un momento all’altro il panneggio rischia di scoprire le pudenda del Nazareno, che proprio per questo motivo ci appare inerme, ancor più di quanto non sia già.

Sgualcito è anche il cartiglio conficcato all’apice della croce. Lo strappo cagionato dal chiodo viene enfatizzato ogni qual volta il foglio garrisce al vento; basterebbe soltanto un altro refolo per estirparlo dal legno, portando via con sé la colpa comminata a grandi lettere: INRI. Il Re dei Giudei pare destinato all’oblio, avvolto non più dal panneggio bensì dall’inquietudine e dalle tenebre (all’orizzonte un lucore che è promessa di santità anziché di salvezza). È questione di poco: il panno bianco e il foglio stanno per lasciarlo, sull’esempio dell’Onnipotente. E poiché ai lati della croce non intravediamo né Disma né Gesta, il Nazareno è ineluttabilmente solo.

Nonostante la testa sollevata rispecchi i caratteri del Christus Triumphans, l’occhio tremebondo e supplice appartengono all’iconografia Patiens. Malgrado ciò, il suo supplizio non è fisico, a logorarlo è semmai il senso di isolamento. Egli non ha paura di soffrire ma di essere colpevole. Si noti inoltre come i chiodi conficcati sui polsi ne abbiano intorpidito le dita periferiche – anulare e mignolo, incapaci di distendersi, sono contratti verso il palmo della mano – mentre l’indice e il medio sono protesi a toccare il cielo, alla disperata ricerca di un contatto con Dio. Una supplica caritatevole, quella di un figlio che invoca l’aiuto del padre, che di lì a breve finisce per prorompere in un grido straziante: Eloì, Eloì, lemà sabactàni. «Perché mi hai abbandonato?» reclama il Nazareno.

Georges Bataille ha giustamente notato che niente è più insopportabile del sentirsi abbandonato come lo si è in presenza di Dio. A nostra volta finiamo per interrogarci sul perché di questa Crocefissione, convenendo con Picasso che «non c’è un tema più bello di una Crocefissione, proprio perché è stato fatto per più di mille anni, milioni di volte». Ecco perché. Resta però un ultimo rituale da adempiere: trascendere il dato visivo per riuscire ad ammirare la pittura, che è la vera interprete dell’opera.

(*Direttore artistico del Mac, Museo d’arte contemporanea di Lissone )