Il Cristo in croce di Anton Van Dyck continua a parlarci a quattro secoli di distanza dalla sua realizzazione. Mentre è in corso la mostra alla Cappella reale della reggia di Monza, il Cittadino (media partner) ha chiesto ad alcuni curatori d’arte, artisti, poeti di leggere l’opera per noi.
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Le opere d’arte sono “contemporanee” non per motivi temporali o di tecnica, ma perché linguisticamente possono raggiungere i loro osservatori; il Cristo di Van Dyck si staglia, come sospeso, dall’oscurità in cui piombò la terrà poco prima della morte di Gesù, riprendendo i racconti degli apostoli.
Egli ferma il momento preciso in cui tutto si annulla e rende protagonista solo la figura del Nazzareno, nello stesso modo in cui una fotografia di cronaca lascia che il corpo disteso sulla croce racconti la tensione e il dramma dell’attimo.
A distanza di quasi quattrocento anni (il dipinto è del 1621), il suo lascito è ancora una dichiarazione pertinente, perché pone al centro della scena la vicenda di un uomo sconfitto per mano di altri uomini. Se ci si fermasse qui, distogliendo il valore teologico o religioso della narrazione, allora si potrebbe ben comprendere come mai questo soggetto può ancora ritenersi significativo, rendendo quella persona sofferente testimone di tutte le persone che tuttora subiscono ingiustamente una condizione di dolore. Negli anni quaranta, Renato Guttuso o Aligi Sassu identificavano nelle loro crocifissioni il senso di una comunità avvinta alla follia del regime fascista e nel contempo da questa massacrata nella sua prerogativa vitale, ossia la libertà e la possibilità di essere felici, ecco che il Cristo era l’incarnazione di un malessere collettivo, non un simbolo cristiano.
Oggi, sono i reporter che ci raccontano le zone di guerre e “dipingono” i loro cristi-in-croce attraverso gli sguardi, le situazioni e i gesti degli sfollati, di chi è costretto a fare i conti con la follia delle aggressioni belliche o semplicemente subisce una situazione di annullamento, come spesso mette in evidenza il fotografo napoletano Pietro Masturzo.
Il miliziano morente di Robert Capa cade allargando le braccia e lascia in quel gesto il senso della fine estrema e inutile che offre la guerra fermata in quell’attimo definitivo e tremendo che riesce a diventare forma estetica assoluta, valida per ogni generazione e ogni tempo: come il Cristo di Van Dyck che non smette di parlare perché ha ancora qualcosa da dire.
* Direttore artistico degli spazi espositivi della città di Legnano