«Ero in bagno quella mattina, mi stavo facendo la barba per poi andare al lavoro. La finestra accanto al lavandino si affacciava proprio sulla ferrovia. Ero abituato a sentire l’arrivo del treno, ma quel giorno capii subito che c’era qualcosa che non andava. Il treno di solito cominciava a frenare quando arrivava sotto le finestre di casa nostra. Quel giorno si sentì solo un fischio lunghissimo, qualcosa non andava». A raccontare il disastro ferroviario del 5 gennaio 1960 è Luigi Sanvito, allora ventiquattrenne, dipendente alla Philips di via Borgazzi. La casa dei Sanvito era al numero 53 di viale Libertà, proprio a pochi passi dal punto in cui il treno è uscito dai binari precipitando dal ponte.
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«Guardai dalla finestra del bagno ma vidi solo i passeggeri che erano nei vagoni di coda affacciati al finestrino, nemmeno loro avevano capito cosa fosse successo – continua Luigi -. Poi andai a vedere da un’altra finestra e lì capii il disastro che era successo». In casa con lui c’erano anche la mamma e il fratello Enrico, allora diciassettenne. Corsero in strada tutti e due e videro due carrozze in testa al treno precipitate dal ponte, e le rotaie che attraversavano i vagoni. «C’era gente sotto choc, alcuni feriti, vidi anche una mano sbucare dal vetro infranto di un finestrino. Uno spettacolo orribile. Incontrai anche un mio collega che era su quel treno ma che fortunatamente ne uscì illeso».
Fu Enrico Sanvito a telefonare alla stazione di Monza per avvertire dell’incidente. «Poi iniziai a rendermi utile. Di fronte al ponte c’era l’osteria della sciura Rosa, portammo lì i feriti meno gravi, per metterli a sedere e dare loro un bicchiere d’acqua. Incontrai anche una ragazza tutta insanguinata, mi disse che era seduta accanto a un sacerdote, e che non si muoveva più». Era don Giuseppe Caffulli, quarantasei anni, parroco di Dervio, una delle diciassette vittime di quella mattina di inizio gennaio.
Accanto al cantiere per la costruzione del sottopasso di viale Libertà era stata allestita la casetta del custode. E ci fu anche lui tra i primi soccorritori accorsi a dare una mano. «Mi ricordo quell’uomo trasportare in spalla i feriti fino al bar di fronte, uno dopo l’altro», continua Enrico.
In poco tempo sul luogo del disastro iniziarono ad arrivare i mezzi di soccorso e le forze dell’ordine. «A quel punto presi la bici e andai al lavoro. Ero impiegato in una piccola impresa edile in centro – continua Enrico -. Lungo il tragitto raccontai quello che era successo a tutti quelli che incontravo. Venni a sapere anche che qualcuno era entrato nella chiesa di San Gerardo, che allora era la nostra parrocchia di riferimento, per interrompere la messa e raccontare quello che stava accadendo in viale Libertà».
Anche Licena Torri, oggi moglie di Luigi Sanvito, ricorda quel giorno. «Lavoravo alla Singer, che aveva lo stabilimento proprio davanti all’ospedale. Fin dal mattino abbiamo sentito un via vai continuo di ambulanze». Furono diciassette le vittime quel giorno di nebbia, oltre cento i feriti. «Il titolare dell’azienda per cui lavoravo conosceva il custode del cimitero – conclude Enrico – alle 10 del mattino erano già cinque i corpi nella camera mortuaria. Sarebbero diventati molti di più in quella tremenda giornata». Un mese dopo l’incidente gli operai ritornarono al lavoro al cantiere del sottopasso. E i treni ripresero a percorrere quel ponte provvisorio.
L’amministrazione commemorerà le vittime: il Comune deporrà una corona accanto alla targa posta sotto il ponte da cui crollarono i vagoni. Lo farà domenica 5, alle 10, durante una cerimonia a cui parteciperà il consigliere Rosario Adamo, accompagnato da Giuseppe Cereda, ex ferroviere in pensione, membro del comitato dei famigliari delle vittime.