Agostino Bonalumi e l’eredità del Novecento: il figlio racconta

Alla vigilia della presentazione ufficiale dei primi due volumi del catalogo ragionato, edito da Skira, il figlio di Agostino Bonalumi, Fabrizio, racconta il padre, il lavoro fatto, quello da fare e molto altro.
Fabrizio Bonalumi nella sede dell’Archivio Agostino Bonalumi
Fabrizio Bonalumi nella sede dell’Archivio Agostino Bonalumi Fabrizio Radaelli

«Cosa è rimasto di lui oltre all’arte? La sua disponibilità umana: è quello che mi hanno detto tutti dopo il funerale. Che tu fossi un critico o il meccanico di fianco a casa a Desio, a lui poco importava: se riconosceva il tuo interesse, ti ascoltava». Sono passati due anni e mezzo dalla scomparsa di Agostino Bonalumi, il pittore dei volumi e dello spazio, e il figlio Fabrizio a tratti ancora si commuove tra i ricordi: è lui oggi a condurre l’Archivio Bonalumi, a Milano, per gestire l’eredità prima di tutto artistica del padre.

Il primo risultato sono due volumi, un primo, enorme corpus dell’opera dell’artista nato a Vimercate e morto nel settembre 2013: il catalogo ragionato pubblicato da Skira e curato dal figlio con lo storico e critico Marco Meneguzzo, docente di Brera. «Ragionato – avverte Fabrizio Bonalumi – Non è un catalogo generale perché non possiamo considerarlo definitivo: ci sono opere già archiviate ma non catalogate perché ci mancano dati. Credo che un terzo volume sarà necessario, ma serviranno quattro o cinque anni».

Il lavoro era iniziato prima, con Agostino Bonalumi in vita, la volontà di lasciare un atlante definito della sua arte sotto il suo diretto controllo: «Avevamo iniziato nel 2011, purtroppo non ha fatto in tempo a vederlo finito: l’idea iniziale era di arrivare fino al 2000. Nel momento in cui è mancato abbiamo preferito impiegare più tempo per offrire l’opera completa».

Era soddisfatto nel suo lavoro?
Era un problema che non si poneva. Il suo problema è sempre stato cosa fare il giorno dopo, non quello che aveva fatto. Aveva grande consapevolezza della sua opera. La sua visione del percorso artistico era “cosa faccio poi”: e aveva in mente ancora sviluppi interessanti, tanti progetti. Lui è morto di mercoledì. Le cose sono precipitate in fretta. La domenica, tre giorni prima, mi aveva chiesto se dal colorificio era arrivato l’acrilico viola per un quadro che stava realizzando. E che è ancora là, nella nostra casa in Umbria.

La malattia l’ha condizionato?
Per lui è stata una grande sofferenza, soprattutto alla fine. Gli comportava problemi pratici, non aveva molta autonomia. Lui di questo soffriva, perché aveva molta dignità: si sentiva di creare disagio agli altri. Ma la malattia non gli ha mai impedito di lavorare costantemente. E il posto in cui stava meglio era lo studio, perché lì eclissava gli aspetti negativi della sua salute.

Poco dopo la sua scomparsa Londra ha ospitato una mostra importante.
Sì, ottobre 2013. Un mese dopo. Il progetto è nato con lui.Non ha fatto in tempo a vedere l’inaugurazione.

Emozionante?
Sì, certo. La mostra è stato un successo. Ne abbiamo poi fatta un’altra nel 2014, sempre a Londra, insieme a una monografia che si occupava delle sculture. E a marzo ne faremo una terza, con un’opera di undici pannelli. Il catalogo, curato da Meneguzzo, sarà soprattutto una pubblicazione sulle opere-ambiente.

E nella sua Milano?
Per ora no. Non ci sono le condizioni. Eppure lui, Castellani, Manzoni, Scheggi, hanno rappresentato l’ultimo dei momenti dell’arte di cui Milano può andare fiera. Ma ripeto: non ci sono le condizioni. Era legatissimo a Milano, mio padre: si sentiva profondamente milanese, oltre che brianzolo. Ma qui sembra si possano fare mostre soltanto se i progetti sono totalmente finanziati: sembrano affittacamere. A Catanzaro abbiamo fatto un’ottima mostra voluta dal Marca: ci hanno chiesto un a mano e l’abbiamo data. Ma ti fanno la proposta con una dignità diversa.

E poi c’era la sua Brianza.
Ci teneva, sì: tanto. Ma aveva anche un’idea chiara e netta sui limiti e sui danni del suo provincialismo. Era dispiaciuto del fatto che non ci fosse mai stato un segno vero di attenzione nei suoi confronti. Lo contattavano dicendogli “sa, c’è una mostra sui pittori locali, se interessato compili il modulo…”. All’inizio rispondeva anche. Poi ha smesso. Era piuttosto disilluso, ma era legato alla sua terra.

Ma un padre così, pesa?
Bonalumi, Einstein o Brambilla che sia, un padre resta un padre. Se sei un ragazzino, è uguale agli altri: con tutti i problemi che ci sono tra padre e figlio. Posso dire, come per mio fratello, che il rapporto è stato in passato molto conflittuale, perché aveva una personalità forte. E io anche. Lui aveva un atteggiamento nei confronti della vita molto preciso, riassunto benissimo in una delle sue poesie: puoi lasciare che la vita ti passi via oppure fare attenzione a qualsiasi cosa, senza che diventi abitudine. Anche il modo in cui prendi il bicchiere a tavola. In lui c’era anche un’estetica dei comportamenti. Ma per un ragazzino può essere pesante. E quando il ragazzino diventa ragazzo, i problemi emergono. In quegli anni è stato un rapporto duro. Poi diventi uomo e capisci.

Cos’è cambiato?
Negli ultimi anni lui ha capito che ero io il padre di mio pare, che poteva fare conto su di me, che poteva occuparsi di arte e lasciar perdere le pubbliche relazioni, i galleristi, le persone: scaricare i dispiaceri e occuparsi solo delle sue opere. E io ho capito che le cose che da ragazzo mi pesavano sono quelle che mi hanno fatto diventare quello che sono. Ho avuto più possibilità. La possibilità di avere orizzonti diversi.

Andavate insieme alle mostre?
Non c’era bisogno. Se capitava capitava, altrimenti no. Siamo cresciuti, io e mio fratello, in mezzo all’arte. Era un incontro costante. Li ho conosciuti tutti, gli artisti con i quali è entrato in contatto, quelli scomparsi e quelli no: Castellani, Dorazio. Anche quelli rimasti nell’ombra. Io sono cresciuto lì in mezzo. Ed è quello che dovrebbero fare tutti, basterebbe usare bene gli spazi pubblici come accade altrove e non costruire i musei come un luogo sacro dove si va in adorazione a guardar qualcosa. Dovrebbero essere un posto in cui bere un tè, in famiglia o con gli amici. Così i bambini le respirano, arte e cultura. Non c’è bisogno di spiegare nulla, perché è come imparare una lingua: per i bambini è automatico. Io ho imparato così: crescendoci in mezzo. E dovrebbe essere così per tutti.

Suo padre ha il posto che gli spetta nel mondo nell’arte?
Io penso di sì. Il riconoscimento dal punto di vista dell’importanza storica e artistica c’era da molto prima che si traducesse nel mercato. Quando andavo al liceo e avevo come libro di testo l’Argan, ci leggevo di mio padre. E questo mi creava anche imbarazzo. I professori dicevano “ah, ma non potresti chiedere a tua padre…”. Che era strano due volte, perché io conoscevo anche Argan.

Ma non è l’unico aspetto.
Poi c’è il mercato, ma è una cosa più recente: forse qualcosa dovrebbe andare a posto, ma il mercato è figlio della cronaca e i problemi ci sono sempre. Quando diventiamo storia, la storia fa giustizia di tutto. Poi c’è il riconoscimento dal punto di vista dell’attenzione del Paese e in questo caso la risposta è no, ma questo non è legato a mio padre, è un problema del sistema Paese, e riguarda tutti. Perché sulla televisione di Stato non ho mai visto documentari su Burri o Fontana.

AGOSTINO BONALUMI from Zenit Arti Audiovisive on Vimeo.