C’era una volta Tikrit. E c’era, una volta, anche Mosul. Come c’erano Bamyan, Palmira, Timbuctu, tutte le città dove la furia iconoclasta del califfato e del fanatismo religioso hanno devastato secoli di arte e architettura con il miraggio di un mondo che fa tabula rasa del suo passato. Non resta che osservarle come in una cartolina, quelle città. Soprattutto i loro tesori distrutti. E allora “Saluti da Kobane”, la mostra curata da Flavio Arensi per Circoloquadro, galleria milanese (via Thaon di Revel 21, circoloquadro.com) fondata dalla seregnese Arianna Beretta, che ha ospitato le opere di Massimo Dalla Pola fino al 13 novembre.
Nato nel 1971, brianzolo, l’artista ha presentato a Circoloquadro il nuovo ciclo di opere dedicate ai siti archeologici e religiosi – tra Afghanistan, Siria e Iraq – distrutti dal fanatismo religioso, dopo essersi concentrato con “Paesaggio italiano” (progetto presentato un anno fa sempre negli spazi di via Tahon di Revel) e “Sotto i cieli d’Europa” ai luoghi degli attentati e degli incidenti irrisolti della storia occidentale. Della Pola lo fa con «i suoi paesaggi, neri, silenti, immobili e illuminanti da un drammatico color rame», ha raccontato la galleria, che «denunciano gli sfregi operati, fra gli altri, sui Budda di Bamyan, a Palmira, Mosul, Tikrit, Timbuctu».
Nelle tele «rivivono integri, come fermati esattamente l’attimo prima dell’annientamento, i siti distrutti o fortemente danneggiati per motivi simbolici, religiosi o politici. La violenza e la distruzione come attestazione di potere, di dominio sul territorio non è cosa nuova. L’iconoclastia è sempre esistita, non siamo certo di fronte a un fenomeno nuovo. Le opere d’arte sono sempre state distrutte nel corso dei secoli perché cariche di significati altri, da Cartagine ai roghi nazisti». Non c’è traccia umana, nelle tele, come di umano poco sembra esserci nelle devastazioni: che pure, in fondo, sono quanto di più drammaticamente umano esista. Ma si tratta di « una indagine fredda e lucida, tipica del modus operandi di Dalla Pola, che, come un archivista del contemporaneo, mette in fila i fatti e li mostra senza giudizio, offrendoli al nostro sguardo».