Un progetto promosso dal marchio Antony Morato e arrivato al termine: lunedì 11 maggio a Roma, all’auditorium Parco della musica, la proiezione speciale della versione restaurata del “Giardino dei Finzi Contini”, il film di Vittorio De Sica vincitore dell’Oscar nel 1972 come miglior film straniero. Una pellicola nata grazie anche a Monza, o meglio, alla Brianza: tutti gli interni sono stati girati a villa Litta Bolognini a Vedano al Lambro.
«Ricordo la prima a Gerusalemme – ha raccontato Christian De Sica a La Repubblica – ero seduto vicino a mio padre che aveva accanto Golda Meir e vicino a mamma c’era Moshe Dayan. Scorrono i titoli di coda e l’applauso non parte, mio padre mi stringe il braccio: “Non è piaciuto”. Quando si accesero le luci, tutto il pubblico piangeva. Vedere Golda Meir con le lacrime agli occhi è un’emozione che mi porto ancora dentro. Poi ricordo gli applausi, e la felicità di papà». Il Cittadino aveva parlato del film un anno e mezzo fa, in occasione della giornata della memoria, il 23 gennaio 2014: ecco quegli articoli.
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Quando Monza raccontava l’Olocausto al mondo
Un gruppo di ragazzi vestiti di bianco attraversa un giardino sterrato in bicicletta e sullo sfondo appare una villa. Sarà lì attorno, nell’ arco di poco tempo, che tutto accadrà. Che la ghigliottina della più grande tragedia del Novecento stroncherà con un colpo secco e irreversibile storie, amori, speranze, affetti riducendo tante vite nel dolore, nel ricordo doloroso, di chi sopravviverà.
Quel giardino è “Il giardino dei Finzi-Contini”. E se la finzione narrativa di Giorgio Bassani prima e di Vittorio De Sica poi ambienteranno la storia a Ferrara, è stata Monza, anzi Vedano, a dare casa alle vite del più celebre racconto nel mondo della Shoah in Italia. Bassani lo aveva scritto nel 1962 e la consapevolezza del sangue sparso per l’Europa non era nemmeno maggiorenne.
Quando otto anni dopo De Sica prende il testo e ne fa un film, non era passato che un quarto di secolo da quando il pianeta aveva dovuto fare i conti con l’orrore nazifascista. Un quarto di secolo è nulla: il sangue è ancora fresco. Da oggi, alba del 2014, è il tempo passato dalla condanna islamista a Salman Rushdie, dalle proteste di piazza Tien An Men, dal concerto dei Pink Floyd nel parco di Monza e poi in piazza San Marco. Dalla caduta del muro di Berlino. Dalla nascita della Lega nord. Non è ieri, d’accordo, ma è l’altro ieri.
Ed è la prospettiva in cui va guardata l’uscita del “Giardino” di De Sica nelle sale. Parlava dell’altro ieri, allora: di ferite aperte, di sangue fresco. Ma quel film conquistò il mondo: l’Oscar nel 1972, l’Orso d’oro a Berlino nel 1971, l’anno dei David di Donatello, dei Nastri d’argento, del Globo d’oro. Con un cast che comprende Dominique Sanda ed Helmut Berger, Lino Capolicchio, Fabio Testi, Romolo Valli. La Shoah in Italia, fuori dall’Italia era diventato “Il giardino dei Finzi-Contini”. Ed era stato girato in larga parte a Vedano, praticamente Monza, in quella villa Litta Bolognini Modigliani che sì, per i più (ancora oggi) è quella in cui viveva l’amante del re.
Tutti gli interni delle riprese in un capolavoro d’architettura neogotica costruita negli anni Quaranta dell’Ottocento, quando l’Italia iniziava a pensarsi nazione e che proprio lì, tra Vedano e Monza, avrebbe visto insediarsi un po’ di Regno. «I morti da poco sono più vicini a noi, e appunto per questo gli vogliamo più bene. Gli etruschi, vedi, è tanto tempo che sono morti, che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre stati morti»: sono le parole che Bassani mette in bocca al padre di una bambina per spiegarle il senso del dolore, nel prologo. La storia racconta di alcune famiglie ebree nell’arco di cinque anni, dopo le prime leggi razziali, con l’aria incombente di un olocausto che è tanto tangibile quanto incredibile.
Una storia d’amore tra due ragazzi di classe sociale differente, che non porta da nessuna parte e viene spazzata via della deportazione. Con quelle parole il padre di Giannina le spiega il senso del dolore e le racconta il valore della memoria. Del ricordo, anche quando gli anni passano e i morti sembra siano sempre stati morti. Non lo erano sempre stati Giorgio e Micol, la nonna Regina, Alberto, Malnate e gli altri protagonisti del film. Non lo sono sempre stati i monzesi e brianzoli – ebrei o dissidenti – portati a morire nel lager.
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Quel cercarobe tra pittori e pompelmi
Correva la primavera 1970 e rocambolesche situazioni erano pronte a “bussare” alla porta di Vedano al Lambro, location di “set cinematografici” grazie ad una rara bellezza paesaggistica per l’ estrema vicinanza al parco di Monza e della villa Litta Bolognini.
Una mattina il “cerca robe” (così si chiamavano in gergo cinematografico gli addetti alla ricerca di oggetti) della troupe del film “Il giardino dei Finzi – Contini”, giunta in città per quindici giorni di riprese, si è recato alla vicina e storica edicola Rossi dove erano soliti radunarsi le persone del paese per cercare un pittore come comparsa.
La voce è subito corsa tra i vedanesi e Sandro Meregalli, classe 1936, presidente da quattro anni del centro anziani “Sandro Pertini” di Vedano ha risposto subito all’ appello. Ma la sua carriera da giovane attore, allora 34enne, è finita ancora prima di cominciare. «Quando ho accettato – racconta con il sorriso Sandro Meregalli -, ho seguito subito questo signore con un forte accento romano che mi ha fatto attraversare tutto l’ enorme giardino interno rimanendo molto lontani dalla villa fino ad arrivare ad un cancello di ferro. Lì mi aspettavano assi in legno, una scaletta, un pennello e un vasetto di vernice per imbiancare e trasformare il cancello in un portone. Insomma alla fine non ho accettato l’ incarico: il mio sogno di diventare una comparsa di un celebre film, logicamente per divertimento, è finito subito. Non sapevamo che in gergo romano, pittore significa semplicemente imbianchino».
Altro che trompe l’ oeil, ma solo una semplice imbiancatura prima del ciak. Ma le vicende proseguono. Solo qualche giorno dopo, l’ ormai noto “romano” in cerca di talenti, è ricomparso all’ edicola Rossi. Questa volta era alla ricerca di un ortolano per avere 60 cassette di grandi pompelmi. i vedanesi lo indirizzarono subito da Giacomino, a due passi dalla villa.
«Servono sessanta cassette di pompelmi perché la protagonista li deve sognare»… «Ma una quantità così grande non ce l’ho…» «Ma scusi lei vada al mercato di ortofrutta di Milano, li compra poi li presta a noi e quando abbiamo girato la scena lei se li riprende e li può vendere…».
La richiesta non venne accettata e per la seconda volta il “cerca robe” tornò sul set a mani vuote. «Ricordo che in realtà per questo film alla fine non sono state prese comparse se non forse qualcuna. Ti davano un cesto di frutta, coca cola, panino e diecimila lire. Ricordo però molto bene – racconta Sandro Meregalli -, quando venivano girati caroselli e film sulle corse all’ Ippodromo a metà degli anni Quaranta: lì cercavano magari decine di vedanesi come pubblico durante le gare dei cavalli».
Villa Litta Bolognini in piazza Bonfanti, che ancora oggi rimane impenetrabile per la riservatezza dei proprietari, a metà anni quaranta era stata già teatro di alcuni film come “Bolero” e “Grand Hotel”.
Attualmente la villa (che conta ben 99 stanze), è abitata dalla famiglia Litta di donna Anna, ereditiera di donna Marella Litta. All’ interno della proprietà vi sono abitazioni affittate ad alcune famiglie, costruzioni coeve dello stesso periodo della villa.