Sono passati vent’anni dalla morte di Augusto Merati, appassionato ricercatore e studioso della storia di Monza e della Brianza, l’autore di tante scoperte fondamentali e collaboratore del Cittadino: era il 25 novembre 2001. Un ricordo firmato da prosegue il suo lavoro, l’archeologo monzese Stefano Pruneri, a sua volta collaboratore della nostra testata.
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Quando mi accade di parlare di Augusto Merati, mi accorgo di usare quasi sempre il tempo presente, perché penso che i suoi testi siano ancora vivi e riescano a trasmettere intatta la grande passione da lui posseduta per materie quali la storia, l’archeologia, l’architettura, l’arte e la tradizione dialettale non solo della città di Monza ma anche del territorio circostante, dalla Brianza al Vimercatese.
Nei suoi scritti il paziente studio dell’evoluzione storica e architettonica di edifici e monumenti del passato (come il castello e le mura viscontee, il Duomo, l’Arengario, il ponte d’Arena o le svariate chiese cittadine esistenti e scomparse, solo per rimanere in ambito monzese) non è fine a se stesso ma si accompagna all’impellente necessità di una loro tutela e salvaguardia; e nel caso malaugurato che alcune di queste preziose vestigia siano andate distrutte, lo studioso sente il dovere di conservarne almeno la memoria, vincendo in qualche modo l’amarezza per il fatto che “l’ignoranza e lo spietato egoismo hanno privato la cittadinanza di tante testimonianze della sua millenaria vita civile”.
Sebbene egli non abbia una formazione accademica in senso stretto, le ricerche storico-archeologiche di Merati si caratterizzano per il rigore morale e la serietà del metodo di studio, basato sulla consultazione di documenti d’archivio inediti, di pubblicazioni antiche, di fonti iconografiche, di mappe storiche, integrate e completate dall’osservazione diretta ’in loco’ e dalla verifica sul terreno delle ipotesi maturate.
Tale metodologia è ancora attuale, come attuale appare il bisogno di divulgare i risultati delle sue scoperte attraverso i numerosi libri e gli articoli da lui scritti per “Il Cittadino” con prosa limpida, spesso accompagnati da accurate planimetrie, vivaci disegni esplicativi, assonometrie ricostruttive, fotografie.
Tra queste ultime ve n’è una che lo ritrae in equilibrio precario sopra un tetto, mentre esamina alcuni embrici di epoca romana reimpiegati in un comignolo, immagine che a mio parere ben rappresenta la sua personalità attiva e la sua curiosità di studioso, costantemente animato da quello che io e alcuni miei colleghi archeologi chiamiamo “Il sacro fuoco”. A tal proposito mi viene in mente quanto riferitomi da don Erminio Burbello, coadiutore presso l’oratorio della parrocchia monzese di San Gerardo al Corpo dal 1968 al 1986, che aveva conosciuto e apprezzato lo studioso in occasione della pubblicazione del volume “Gerardo Tintore il Santo di Monza” (1979) e che lo aveva poi accompagnato “in giro per la Brianza sulle tracce del culto di San Gerardo”; proprio in occasione di una di queste esplorazioni i due si erano trovati “arrampicati, in pratica sospesi nel vuoto”, per fotografare alcune colonnine visibili nella cella campanaria del campanile della chiesa di Ello, al fine di trovare eventuali confronti con manufatti simili presenti nel duomo di Monza.
Per quanto riguarda la sua attività di archeologo, va sottolineato come senza le ricerche di Merati, da lui svolte con la qualifica di Ispettore onorario alle antichità per la zona di Monza e Brianza a partire dall’inizio degli anni ’60 – periodo in cui il concetto di archeologia preventiva non era diffuso e molti lavori di scavo in aree sensibili come i centri storici non erano ancora supervisionati da archeologi professionisti – molte preziose informazioni relative alla storia della città e del circondario sarebbero andate perdute per sempre. Mi riferisco – per citare soltanto alcuni dei rinvenimenti di ambito monzese meno noti da lui documentati – ai resti dell’abside della chiesa di Sant’Agata portati alla luce nel 1965 in via De Amicis, alle fondazioni della medievale Porta Nuova emerse nel 1968 in largo Mazzini, alle tracce architettoniche della trecentesca chiesa di San Francesco individuate alla fine degli anni ‘70 durante lavori di ristrutturazione del Palazzo degli Studi, sede del liceo classico Zucchi.
Era quella un’epoca nella quale si pensava più a distruggere le memorie del passato che a conservarle, edificando al contempo quegli ’scatoloni di cemento’ che ancora oggi avviliscono il tessuto urbano del centro storico di Monza. In tal senso l’opera e la figura di Merati rappresentano non solo una fonte di dati e di ispirazione per gli studiosi attuali, ma anche un esempio per tutti coloro che amano la propria città e che soffrono e si indignano quando le testimonianze storiche del luogo in cui vivono vengono dimenticate o danneggiate a causa di interessi egoistici, logica del profitto o colpevole ignoranza.