La Triennale e una donna: cosa c’entra Mario Sironi con Monza

La prima vera biografica del pittore Mario Sironi la firma Elena Pontiggia per l’editore monzese Johan & Levi: racconta anche della fondazione di Novecento, della Triennale portata via da Monza, di una donna. E di quando fu salvato da Gianni Rodari.
La Triennale e una donna: cosa c’entra Mario Sironi con Monza

Chissà se lo ricordava ancora, in quei suoi ultimi giorni di vita, che trent’anni prima il fratello che aveva così amato si era portato via da lì un pezzo di storia di Monza, di Milano, dell’Italia. Quando nel 1965 Cristina Sironi moriva a Monza, in una casa di riposo in cui aveva vissuto alcuni anni, suo fratello minore Mario se n’era andato da quattro. Per tutta la vita lo aveva accompagnato come farebbe una sorella maggiore, quello che era, sostenendolo quando serviva, aiutandolo, soprattutto negli anni in cui l’opera di uno dei maggiori artisti del primo Novecento aveva ancora bisogno di gambe per camminare.

A raccontare quegli anni del primissimo secolo scorso ci ha pensato una mostra, a settembre, curata da Elena Pontiggia alla galleria Biffi arte di Piacenza: “Mario Sironi – La raccolta di Cristina Sironi e Rudolph Klien”, la sorella e il cognato dell’artista, un chimico inglese che aveva acquistato per anni opere del milanese di riadozione. A raccontare tutto il resto ci ha pensato la stessa Pontiggia in una nuova biografia di Sironi pubblicata in questi giorni dall’editore monzese Johan&Levi e presentata al Complesso del Vittoriano di Roma.

Dentro, anche il fitto intreccio della vita di Sironi (che era nato nel 1885) con la città di Monza, legato a doppio filo con due esperienze: quella del movimento Novecento italiano di cui hanno fatto parte anche Anselmo Bucci (con il quale aveva condiviso l’esperienza del Battaglione lombardo volontari ciclisti nella prima guerra mondiale) e Leonardo Dudreville, oltre a Carrà, il giovane de Chirico, Achille Funi e Felice Casorati, Giorgio Morandi e Adolfo Wildt; e poi quella della Biennale d’arti decorative che proprio Sironi, con Margherita Sarfatti, avrebbe fatto in modo di trasferire a Milano nel palazzo della Triennale che tutt’ora la ospita – fatto salvo quel pezzo di collezione storica del design che da poche settimane è tornato a casa, a Monza, all’ultimo piano della Villa reale.

«La biografia è il risultato di alcuni anni di lavoro negli archivi – racconta Elena Pontiggia, storica dell’arte, attenta studiosa degli artisti italiani della prima metà del Novecento – Attraverso molti materiali spesso inediti e con alcuni colpi di fortuna ho ricostruito fatti della vita di Sironi che non si conoscevano». Come per esempio il suo essere nipote d’arte, con un nonno e uno zio che si sono occupati di architettura e che evidentemente hanno lasciato un segno nell’esperienza artistica del nipote. Oppure quel processo subito nel 1934 quando aveva già scelto la strada della pittura murale – per tutti, senza condizioni, senza costi per il pubblico – una strada che il suo gallerista aveva mal digerito al punto da portarlo in tribunale.

«Sironi aveva iniziato a collaborare con la Biennale di Monza nel 1927, per l’allestimento. Con Margherita Sarfatti aveva voluto trasformarla in altro e nel 1933 è riuscito a portarla a Milano, nel palazzo progettato dall’amico Muzio», ma era ormai quasi un monumento a se stesso, alla sua arte, non più la rassegna delle arti decorative ma della decorazione, quella murale che aveva scelto come espressione.

La biografia di Elena Pontiggia è molto di più: è il racconto per la prima volta documentato (e spesso per questo inedito) di un artista dalla parabola esistenziale complessa e drammatica, fedele agli ideali del fascismo che aveva condiviso sempre, un testo – scrive l’editore – «che riesamina così tutta l’opera sironiana, correggendo errori storiografici finora diffusi e illuminando lati ancora sconosciuti della sua attività». «Gli storici ormai riconoscono a Sironi e al movimento Novecento un valore assoluto, nessuno pensa più a quello sguardo al figurativo come un reazionario ritorno alla classicità: era piuttosto l’aggiornamento delle istanze dell’arte nel dopoguerra: una figurazione che interpretava la realtà con una sensibilità diversa, senza essere la volontà di rigurgitare le deviazioni del primo secolo scorso. Nel caso di Sironi, l’arte di chi pensava che non avesse bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza», come la volontà di potenza della prima metà del Secolo, naufragata in due decenni e salvata, nel suo caso, da un favola: quella di Gianni Rodari, il partigiano che ha salvato un Sironi disperato e in fuga dopo il 25 aprile del 1945 firmandogli un lasciapassare a un posto di blocco. Che aveva visto in lui un artista, non un nemico.