Quando Milano e la Brianza avevano il loro “couscous” si chiamava ossobuco. Anzi: oss büss, che non è questione di meglio questo o quello: semplicemente è un peccato dimenticarselo. Come il resto della cucina tradizionale milanese. E allora un’associazione, anzi qualcosa di più: è la Confraternita dell’Ossobuco, che sarà ufficialmente varata il 21 settembre con una cena a San Giuliano Milanese.
LEGGI La vera ricetta dell’ossobuco alla milanese
La Brianza c’entra eccome, dal momento che tra i fondatori c’è anche Matteo Scibilia, ristoratore di Ornago, chef – pardon, cuoco, correggerebbe lui – dell’Osteria della Buona condotta: è lui ad avere pensato con Lino Gagliardi (Antica osteria Rampina di San Giuliano Milanese) e a Guido Stecchi (Accademia delle 5T) a una realtà che tuteli, rilanci e mantenga viva la tradizione culinaria della patria del risotto giallo. A partire da un piatto simbolo, ormai raro. E come tale prezioso. L’ossobuco.
Da capo: niente razzismo, soltanto fare i conti con i tempi che cambiano senza disperdere una parte del patrimonio culturale del territori, quello gastronomico. «E non si tratta soltanto di tradizioni: la cucina fa parte dei nostri valori. Non bisogna arrendersi alla loro perdita», dice Scibilia, che la genesi della Confraternita la fa risalire all’analisi della cucina contemporanea. Dove le cucine sono sempre più frequentate da personale di origine straniera, che spesso non conosce e non ha nelle dita la tradizione locale. E poi ci sono le mode o anche semplicemente la voglia di esotico: cucina indiana, sushi. Ma si tratta anche di fare i conti con i cuochi più giovani, più tentati dalla quinoa che dal midollo. Quando si prepara il conto, è salatissimo, per la tradizione: è rischio estinzione per nervetti , mondeghili, ossobuco, il vero risotto alla milanese. «E chi si ricorda più i messicani? Sono involtini di vitello con prosciutto, pancetta e salame. Una vera rarità, ovunque».
«La verità è che per conoscere la cucina fino in fondo, e fare i cuochi davvero, occorre studiare. Ricercare. Aprire i libri. Ma non sono poi molti a farlo» osserva ancora Scibilia pensando al suo ruolo da insegnante dei futuri cuochi. «Allora noi della vecchia guardia ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: che fare? La Confraternita è nata così. Ed è un cavallo di Troia: non si tratta solo di tramandare l’ossobuco, ma di difendere i valori di questo territorio e risvegliare un patrimonio di tradizioni incredibili».
Una decina di ristoratori ha già detto sì e ha firmato uno statuto dalle regole ferree, che concede poche deroghe alla ricetta ufficiale – sia quella dell’ossobuco in gremolata, sia quella del risotto alla milanese necessario accompagnamento della carne. Ci vuole mezza mattina, per prepararlo: l’ossobuco ha bisogno di una brasatura a fuoco lento per sciogliere piano piano le cartilagini e ammorbidirle. «Ma il risultato è eccezionale e il compito dei ristoratori è questo: bisogna dare l’emozione del gusto ai clienti».
Lo statuto della Confraternita ha tredici articoli: una premessa dedicata alla salvaguardia della buona tavola meneghina, i necessari appunti di organizzazione e poi i commi fondamentali, cioè le ricette base e le varianti (poche, pochissime) concesse. Come l’acciuga nella gremolata, una punta di pomodoro o concentrato, l’olio extra vergine di oliva in sostituzione parziale o totale del burro: ma che peccato sarebbe, in realtà, il burro gode solo di cattiva stampa, ma per certi piatti dovrebbe essere irrinunciabile.
«L’ho messo in carta da poco e me l’hanno già chiesto, anche clienti stranieri. Ma c’è di più – conclude Scibilia – Difendere la cucina del territorio significa difenderlo anche dal punto di vista agricolo, soprattutto oggi che in tanti sono tornati a coltivare la terra, anche i più giovani, anche dalle nostre parti. Il mio zafferano viene coltivato a Usmate. La carne, il burro arrivano dai dintorni. Il riso è coltivato anche nel milanese, o a Pavia. Non si tratta di mania del chilometro zero. Si tratta di credere nel luogo in cui si vive e nella sua storia».