Giorno del ricordo: “Un giorno dissi a mia madre, mi racconti il freddo e la paura?”

Roberto Slamitz, quella strana infanzia creduta a lungo normale, l'alloggio in Villa reale: che cosa è stato l'esodo di cui parla il Giorno del ricordo.
Roberto Slamitz
Roberto Slamitz Fabrizio Radaelli

«Cosa volevi che ti raccontassi? Del freddo? Della fame? Delle malattie? Della paura?». Parlarne era complicato. Faceva male. Erano trascorsi ormai tanti anni e la vita era cambiata: che senso poteva avere rievocare quel passato? Eppure il velo si stava squarciando e qualcuno aveva iniziato a raccontare.

Nel 2004, poi, era stato ufficialmente istituito il Giorno del ricordo e da quel momento un po’ di luce ha iniziato a rischiarare la storia dell’esodo giuliano-dalmata, una pagina oscura e controversa della storia dell’Italia contemporanea, spesso accompagnata da una narrazione lacunosa. Per tanti anni Roberto Slamitz non ci aveva pensato: in famiglia mai nessuno ne aveva fatto parola. Ascoltando le prime testimonianze ufficiali, però, non potevano esserci dubbi: quella storia era la loro storia. La storia sua, di sua sorella, dei suoi genitori. E non ha potuto fare a meno di ricostruirla.

Giorno del ricordo: noi, profughi a Monza

«Una mattina del 2016 ho preso da parte mia madre, che aveva ormai superato di parecchio gli ottant’anni, e le ho chiesto di parlarmi: del freddo, della fame, delle malattie, della paura». Oggi Roberto Slamitz ha 74 anni e racconta la sua storia nelle scuole e nei comuni, partecipa a convegni, si fa intervistare. Nato in un campo profughi a Marina di Massa, ha vissuto con la famiglia per tre anni all’interno delle scuderie della Villa reale, quando parte della reggia del Piermarini era stata destinata ad accogliere gli esuli.

La madre, Maria Gometz, era originaria di Fiume, oggi in croato Reijeka, e il padre, Francesco Slamitz, di Ragusa, oggi Dubrovnik: all’indomani della presa di potere delle truppe del maresciallo Tito in Jugoslavia, con alcuni membri delle loro famiglie abbandonano le loro terre d’origine. Lo fanno in momenti diversi e vivono esperienze diverse, fino a quando non si incontrano in uno dei tanti campi profughi attraverso cui sono passati: quello di Verona. È il 1947, scoppia l’amore e dopo poco Maria e Francesco si sposano. Roberto nasce nel 1949 in Toscana. «Siamo arrivati a Monza nel 1952 e abbiamo abitato uno dei vecchi box per cavalli fino al 1955. Io ero solo un bimbo, ma di quel periodo ho tanti ricordi».

Giorno del ricordo: i profughi in Villa reale

Tre metri e mezzo per tre metri e mezzo, due letti a castello e un fornelletto per quattro persone: «Come noi vivevano tante altre famiglie: alcune nei box, altre, più fortunate, in alloggi più accoglienti». Una latrina e un lavabo per decine e decine di famiglie. I carabinieri che presidiavano l’ingresso e l’uscita dal campo, custodendo i documenti di identità. Un’infermeria, uno spaccio di generi di prima necessità e uno spazio comune. I bambini che giocavano con il niente che avevano. Dal 1948, anno in cui viene aperto, il campo profughi resta allestito in Villa reale fino al 1967.

«Nato e cresciuto in questo contesto, credevo di aver vissuto nella normalità. Solo quando ho iniziato ad andare a scuola mi sono reso conto di essere diverso: per via del cognome, che non assomigliava a quelli degli altri compagni di classe, e dei vestiti sdruciti». Nel 1955 il padre riesce a trovare un lavoro proprio a Monza, alla Singer: inizia a guadagnare abbastanza per potersi permettere di pagare un affitto. La famiglia si trasferisce in viale Campania, nelle case Ina del piano Fanfani. Inizia a lavorare anche la madre, i bambini frequentano le scuole – le elementari a San Fruttuoso, la medie alla Zucchi di San Giuseppe – e la vita, pian piano, inizia a scorrere più sicura e più serena. Roberto resta a Monza fino agli anni del servizio militare. Poi lavora alla Pirelli, studia alle serali per diventare perito. Inizia a lavorare in giro per il mondo: Libia, Tunisia, Cina, Siberia, Mongolia.

Giorno del ricordo: la consapevolezza, poi

La consapevolezza di essere figlio di esuli arriva all’improvviso e lo travolge. «Secondo le stime circa 350mila persone si sono trovate costrette ad abbandonare l’Istria, Fiume e la Dalmazia, spesso portando con sé solo quello che avevano indosso. Li chiamavano fascisti perché erano scappati dal comunismo di Tito, ma loro cercavano solo di sopravvivere e di restare italiani, come lo erano sempre stati. I fascisti hanno compiuto crimini atroci in Jugoslavia, ma il regime di Tito non è stato da meno. A farne le spese, come sempre, è stata la povera gente. È stato vergognoso voler dimenticare per decenni questa pagina della nostra storia. Ora è il momento di fare chiarezza: per questo testimoniare è importante».