L’emergenza è nei numeri: i detenuti nel carcere di via Sanquirico sono troppi, l’indice di sovraffollamento è tra i più alti in Lombardia, gli agenti penitenziari sono ampiamente sotto organico e, dettaglio che rafforza il paradosso, le dotazioni dei mezzi a disposizione sfiorano un livello da terzo mondo, tanto da far dire ai sindacati che auto e furgoni vanno a pezzi e difficilmente passeranno la prossima revisione. Non è da paese civile amministrare la giustizia quando si perdono di vista i valori che dovrebbero ispirarla, soprattutto se la struttura dove esercitare la funzione rieducativa della pena non è al passo con una situazione logistica accettabile. Il carcere di Monza è un modello per molti istituti di pena, tali e tante sono le iniziative a favore dei detenuti proprio in funzione del recupero sociale e di una pedagogia finalizzata al reinserimento, a condanna scontata, nel mondo del lavoro.
Ma se non ci sono le precondizioni perché si possa operare con profitto – un ambiente umano, spazi praticabili, «secondini» non stressati da troppi turni di lavoro -, ogni sforzo rischia di essere vano. Le conseguenze sono pesanti: la quotidianità precaria fa aumentare la tensione e alzare pericolosamente i livelli di conflittualità. Che il sistema-giustizia attraversi un momento di evidente difficoltà è testimoniato anche dalle condizioni in cui si trova il tribunale di Monza, alle prese con impianti elettrici che saltano, calcinacci che cascano, tubi che perdono acqua. Problemi seri, eppure risolvibili, anche se alla fine la risposta è sempre la stessa: soldi non ce ne sono, impossibile provvedere. Passato il momento, tutto resta come prima. E intanto si è sceso un altro gradino nella scala della civiltà.