Profughi, le storie dell’hub di via Spallanzani a Monza: «Studio, sogno di restare in Italia»

VIDEO - Chi vive negli hub che accolgono i profughi in Brianza? Le storie di chi è arrivato in Italia raccontate da loro. Nelle parole e nelle immagini: il primi capitolo di un reportage anche video del Cittadino.
Uno dei ragazzi intervistati a Monza: Movi
Uno dei ragazzi intervistati a Monza: Movi Redazione online

Chi vive negli hub che accolgono i profughi in Brianza? Le storie di chi è arrivato in Italia raccontate da loro. Nelle parole e nelle immagini: il primi capitolo di un reportage anche video del Cittadino.

Occhi bassi, velati da ombre scure. Scure come la loro pelle. Alcuni hanno voglia di parlare, e allora raccontano quello che si aspettano, quello che sperano per il loro futuro. Non è un futuro lontano, si tratta di capire cosa succederà nei prossimi giorni.

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È appeso a un filo, il filo della burocrazia, degli aiuti umanitari, delle decisioni del ministero e della prefettura il destino dei profughi ospiti in via Spallanzani. La piccola traversa di via Borgazzi fino a pochi giorni fa accoglieva circa sessantacinque persone. Sessantacinque ragazzi che nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno trent’anni, ma che hanno gli occhi velati da ombre scure. Che diventano abissi neri quando raccontano del loro viaggio.

Un viaggio della speranza che li ha portati in Italia dal cuore dell’Africa. Dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio, dal Senegal.
Siede sul marciapiede al di fuori del cancello che delimita il perimetro della struttura di prima accoglienza. Maglietta bianca, pantaloni della tuta neri, occhi bassi. «Mi chiamo Cissé Ibrahim, ho 24 anni – racconta in francese – Sono ivoriano. Davvero non è stato facile il viaggio, come per tutti noi. Arrivati in Libia, alcuni di noi hanno deciso di lavorare, guadagnare dei soldi e raggiungere l’Europa perché in Libia non ci sono libertà. Alcuni sono anche stati imprigionati per quattro mesi, altri hanno fatto sei mesi dal momento che si trattava di una prigione privata. E dal momento che non ci sono leggi, tutti sono stati maltrattati. Costretti a lavorare senza essere pagati: era necessario andarsene al più presto e cercare di raggiungere l’Europa».

E poi? Sapere di più diventa necessario. «Abbiamo lasciato il territorio libico il 16 agosto. Siamo andati in giro per il Mediterraneo, siamo sbarcati a Catania il 18 agosto. Lì siamo stati ricevuti dalla Croce rossa e dall’organizzazione dell’Unione europea e poi trasferiti a Milano. Da Milano siamo stati dispersi, ci hanno divisi. Noi, abbiamo avuto la fortuna di venire qui a Monza. Altri sono andati a Brescia come nelle altre province».

Sogna di restare in Italia, Cissé Ibrahim: nel nostro paese aveva lavorato suo padre, prima che lui nascesse. E lo sogna anche Movi, che di anni ne ha 25 e che proviene dalla Nigeria: «Sono arrivato qui il 5 luglio – racconta in inglese – Qui si sta bene. Mangiamo buon cibo, si prendono cura di noi, ci danno scarpe e vestiti. Ci permettono di andare a scuola. Per noi è importante perché altrimenti non riusciremmo a comunicare con gli italiani. Stiamo studiando l’italiano. Io, poi, lo sto studiando tanto: non ho più una famiglia. In Africa ho perso tutto quello che avevo e sono arrivato qui chiedendo la protezione al governo. Io amo l’Italia e voglio stare qui, per questo sto studiando così tanto».

Lo ripete, come se si potesse avverare questo suo desiderio, a furia di formularlo a voce alta. Attorno altri ragazzi passeggiano, entrano ed escono dal cancello. Parlano tra loro in piccoli gruppi. C’è chi ascolta della musica dal cellulare, chi beve un bicchiere di latte. Un altro siede sul marciapiede, appoggia sulle ginocchia un quaderno e un vocabolario. In mano tiene una penna. Lo sguardo cade oltre il cancello, all’interno delle tende allestite nel cortile dell’edificio. Contengono file di brande.

Ordinate, impersonali. All’esterno, lungo i fili, sono appesi dei vestiti. Vestiti anche sugli stendibiancheria. Si lamenta solo uno dei ragazzi, tra quelli che hanno accettato di farsi intervistare. Viene dal Senegal. È passato dalla Libia anche lui, è sbarcato a Lampedusa. «Casa no good, cibo no good», dice, scuotendo la testa.