«Se chiaramente non è vero che i ragazzi dispersi dal punto di vista scolastico siano tutti quanti a rischio di criminalità e delinquenza grave, è vero però che spesso gli episodi più gravi sono legati a un grande contesto di difficoltà, a una dispersione scolastica».
Simona Ravizza è la direttrice dell’associazione Antonia Vita Carrobiolo, una delle realtà più attive in città con i minori, con l’esperienza della scuola popolare, ma anche con altre attività, nelle quali accoglie anche ragazzi “messi alla prova”, che, quindi, hanno già avuto a che fare con la giustizia minorile.
E di fronte ai tanti episodi di microcriminalità minorile che in questi mesi hanno riguardato anche la Brianza il pensiero va per prima cosa alla scuola e ai suoi fallimenti, che si manifestano soprattutto nel primo biennio delle superiori ma che cominciano a evidenziarsi già alle medie. È solo uno degli aspetti della realtà dei minori oggi, che va inserito in un contesto sociale in cui il disagio si è accentuato negli ultimi tempi.
«Rispetto agli ultimi dieci anni, quelle che una volta erano povertà educative ora sono povertà a tutti gli effetti – continua- Siamo scivolati verso il basso».
Se prima, insomma, la famiglia emblema era formata da padre e madre, con scarsa istruzione, diversi figli alcuni dei quali con problemi di disabilità o di apprendimento, ma che comunque avevano una casa, un lavoro, cibo, ora non è più così e sono sempre più numerose le situazioni in cui questi elementi basilari del vivere famigliare mancano. Un problema la cui soluzione non può essere demandata a singoli operatori, ma che deve essere affrontata insieme alle istituzioni e a tutti i soggetti che agiscono sul territorio.
«Uno dei temi più importanti di questa stagione è quello della comunità educante – dice Roberto Zanellati, responsabile Minori e Giovani per la cooperativa Meta, altra realtà particolarmente attiva su questo fronte – di come si muove la comunità educante per dare risposte ai ragazzi a 360 gradi, fragili e meno fragili. La condizione di fragilità è abbastanza particolare, faccio fatica anche temporalmente a pensare a una persone in condizione di fragilità costante. Basta che un genitore perda il lavoro per piombare nella fragilità economica, che ha un impatto su come i genitori si prendono cura dei figli».
Di fronte al coinvolgimento dei minori in risse, atti di vandalismo o intolleranza, ma anche di fronte alla condizione giovanile tout court, la risposta deve arrivare da tutti i soggetti educativi, cercando di capire, i ragazzi, di conoscerli, senza buonismo ma anche senza cedere agli stereotipi e alle spiegazioni preconfezionate.
«Quando ci sono episodi di cronaca che vengono alla ribalta – osserva Fabio Rech, Politiche giovanili consorzio Exit, che a Monza si occupa di un progetto di educativa di strada – spesso c’è una generalizzazione enorme. Il luogo in cui si consuma una rissa probabilmente è popolato da più di un gruppo e non tutti sono coinvolti. Noi lavoriamo anche a Desio: nel caso della rissa del machete i protagonisti dell’episodio non facevano parte delle compagnie che di solito si trovano lì. Per tutti quelli che leggevano, invece, la compagnia che si trova lì ne fa di ogni».
E bisogna uscire dalla logica che i ragazzi, quando combinano qualcosa, sono della scuola, dell’oratorio, del centro estivo, come se il problema fosse sempre di qualcun altro: «Appartengono alla comunità – chiosa Rech – Sono cittadini a tutti gli effetti, hanno dei diritti, non solo dei doveri. È il tentativo che si sta facendo a San Rocco, con tutta la Consulta, quello di dire: sono i ragazzi del quartiere bisogna che il quartiere se ne occupi».
Una responsabilità educativa condivisa, per la quale gli adulti devono ricominciare a fare gli adulti.