Lei aveva venticinque anni e due bambini piccoli, uno di due anni e mezzo (Mario, che ora dirige il quotidiano La stampa), un secondo di 11 mesi e un terzo in pancia, quando le uccisero il marito, sotto casa, a Milano. Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, è venuta ad Arcore, al cinema teatro Nuovo, per raccontare come quel giorno, il 17 maggio del 1972, cambiò radicalmente la sua vita.
Nessuna parola di odio verso gli assassini e verso chi allora fomentò il delitto, ma solo amore: verso i carnefici per i quali prega, verso i figli, che ha educato a guardare la positività della vita, e verso Dio, che, come lei stessa ha affermato più volte, ha sentito molto vicino, presente. Sollecitata dalle domande del direttore del Cittadino, Martino Cervo, davanti a numerosi cittadini chiamati dalla comunità pastorale, retta da don Giandomenico Colombo, la vedova ha parlato del significato che Pasqua, perdono e cammino hanno nella sua vita.
Quel mattino tremendo in cui il parroco le comunicò la morte del marito fu travolta dal dolore. “Mi stesi sul divano – ha detto gemma – straziata, ma in quel preciso momento sentii dentro di me di non essere sola: sentii vicino Dio e la sua forza mi ha permesso di andare avanti”. Morte e resurrezione, un cammino da compiere: “Vivevo una fede tradizionale, da allora divenne una mia scelta. La fede, la certezza che Dio esiste, non toglie il dolore, ma riempie la vita di significato”. E ha ammesso che anche la maternità, con la sua energia vitale, le ha dato una mano ad accettare la sfida.
Ha perdonato gli assassini di suo marito? La domanda è arrivata diretta e Gemma Calabresi ha risposto con freschezza, come se fosse la prima volta che se la sente rivolgere, accompagnata però da un’esperienza lunga 43 anni. “Gesù in croce chiese al Padre di perdonare i nemici, perché lui uomo non ne era al momento capace. Il perdono ha bisogno di un cammino. Oggi prego per chi uccise Gigi”. E ancora, nel ricordare gli anni di piombo un riferimento ad Adriano Sofri, condannato come mandante dell’omicidio. “Lo vidi in tribunale in uno dei tanti processi. Vidi che accarezzò suo figlio adolescente dicendogli di andare a casa, di non stare lì. Mi colpì la tenerezza di quel gesto: era quello che avrei fatto anche io. In quel momento era parte di me. L’ho visto come un padre affettuoso”.
Ed ecco lo sguardo della fede: “Se uno fa il male non è detto che sia sempre malvagio: può fare cose buone”. Quindi l’appello: “Cercate sempre nelle persone quel pezzetto di Dio in cui si vede che siamo fatti a sua immagine”.
Sollecitata dal pubblico la vedova non ha risparmiato ricordi e aneddoti sul suo Gigi, affrontando anche momenti di visibile commozione. “Era appassionato del suo lavoro, di cui mi diceva poco o nulla per non allarmarmi. Parlava molto coi giovani che volevano fare la rivoluzione. Mi ricordo che si attardava in questura a dialogare coi fermati dopo gli scontri: voleva capire che cosa c’era dietro la loro rabbia”.
E come padre di famiglia Gemma Calabresi ha estratto dai ricordi il momento della buona notte ai bambini: “Leggeva loro, lui romanaccio, pieno di buon umore, le poesie di Trilussa. Loro ascoltavano tranquilli e poi si addormentavano”.
Certo le avvisaglie che volevano fargli del male c’erano, ma lui non voleva mollare. Anche in lui la fede era forte: <Una volta a un’amica che gli diceva di stare attento lui rispose così: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”. Ed è con questa frase che vorrei fosse ricordato>.
Ultime battute.“La vita vale sempre la pena di essere vissuta in ogni circostanza” ha detto Gemma, con un triplice invito rivolto ai presenti. Il primo: accettare il cammino che Dio ci riserva, non abbandonarsi all’odio o al rancore, “perché divorano tutto, anche le cose belle”, dare e chiedere perdono, “perché dà un’enorme libertà interiore”.