“La presenza in cucina di figure internazionali, tra Italia e Giappone, assicura quella continuità che caratterizza lo stile culinario di Iyo; la proposta gastronomica rimane sempre originale, creativa, ispirata al Sol Levante, sebbene proiettata verso il futuro”: scrivono così gli ispettori della guida Michelin 2020, rinnovando al locale l’assegnazione di una delle tre agognate stelle. Iyo è il primo locale di cucina etnica in Italia a conquistare e a mantenere il riconoscimento, che per la prima volta arriva nel 2015. Dietro a tanto successo, anche un po’ di Monza: chef executive del locale è Michele Biassoni, classe 1987 e studi all’istituto alberghiero Olivetti.
Per iniziare un classico: come e quando è nata la sua passione per la cucina?
Arriva dalla nonna, che quando tornavo da scuola mi preparava riso e piselli e pollo arrosto con le patate. Il numero di patate nel piatto dipendeva dal mio rendimento. Ero molto vivace in classe: stavo buono solo ai fornelli. Così, le patate nel mio piatto finivano per essere sempre poche.
A 32 anni vanta già un curriculum molto lungo con parecchie esperienze all’estero: praticamente tutte stellate.
Ho lavorato all’Hotel de la Ville di Monza e poi da Claudio Sadler a Milano, ma la voglia di partire era forte e sognavo Parigi. Prima, però, sono passato per la Spagna: era il 2009 quando con uno stage ho lavorato a “Lasarte”, da Martin Berasategui. Poi, finalmente, è arrivata la Francia: con Enrico Bernando (miglior sommelier del mondo nel 2004, nda) a “Il Vino”. Lì ho approfondito il mondo della cucina francese e mi sono avvicinato a quello dell’enologia, appunto. Ma nel 2013 ero di nuovo a Milano, chiamato da Cracco per l’apertura di Palazzo Parigi.
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Il Giappone quando arriva?
Nel marzo del 2015, quando incontro Claudio Liu, imprenditore nel campo della ristorazione e proprietario di Iyo: il ristorante esiste dal 2007 e da pochi giorni, notizia fresca, è affiancato da un nuovo locale. L’incontro con la cucina asiatica è stato amore a prima vista: ha aperto mondi che mai avrei immaginato e che, dopo quattro anni e mezzo, continuano a stregarmi. Per avvicinarmi meglio a questa cultura ho trascorso tre mesi a Tokyo, dallo chef stellato Yamamoto al ristorante Ryugin, e poi ho viaggiato per il paese. Da quando sono tornato, è stato un continuo crescere ed evolvere, cercando di armonizzare tecniche e abbinamenti diversi, avvicinando oriente e occidente.
Quanto conta la fantasia?
La creatività è importante, ma fondamentali sono la conoscenza delle tecniche e delle materie prime. Noi lavoriamo molto sull’abbinamento degli ingredienti e la contaminazione sta prendendo sempre più piede. I clienti sono curiosi di sperimentare la nostra cucina fluttuante (iyo deriva dal giapponese ukiyo, che vuol dire appunto mondo fluttuante, nda) e, per fortuna, tornano spesso.
Obiettivi futuri?
Intanto il presente: sono orgoglioso di ricoprire questo ruolo, è stimolante. Ho molte responsabilità e la clientela è esigente: non possiamo permetterci errori e scadere nella banalità è fin troppo facile. Continuo a studiare: tanto, ogni giorno, i tagli e le marinature del pesce e della carne. Dalla prossima primavera vorrei concentrarmi meglio sul mondo vegetale, per creare piatti dalla struttura importante anche con queste materie prime.
C’è qualcosa che non le piace cucinare?
Nulla. Però a casa sia io sia mia moglie cuciniamo poco italiano: siamo entrambi molto appassionati di cucina orientale. Questo non toglie che alle volte senta proprio il bisogno di un piatto di pasta al pomodoro. O di un risotto allo zafferano.