«Ho visto una bambina venirmi incontro barcollando: aveva la gonna bruciata e le gambe che perdevano sangue. L’ho afferrata e affidata ad altre persone e mi sono precipitato all’interno della banca. Ho poi saputo che si chiamava Patrizia Pizzamiglio». La bambina di 15 anni è un’altra sopravvissuta alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a Milano: era lì con Enrico, il fratello di tre anni più piccolo, per pagare alcune bollette, mandati dai genitori che gestivano un’edicola poco lontano. Al fratellino che sognava di diventare un calciatore sarebbero stati amputati parte di un piede e alcune dita dell’altro. Patrizia avrebbe a lungo fatto i conti con le cure per le ustioni alle gambe.
Non sono loro i protagonisti di questa storia, ma l’uomo che ha messo al sicuro la bambina. Si chiamava Guglielmo Agnelli, aveva 56 anni ed era un affittuario agricolo. Abitava in via Rosmini, a Monza. E il giornalista del Cittadino Giancarlo Nava, pochi giorni dopo l’attentato alla Banca dell’agricoltura, era andato a trovarlo. “Sul collo, alla tempia destra e alla mano sinistra, porta ancora i cerotti che coprono le ferite, fortunatamente leggere, provocategli dal terribile scoppio – scrisse Nava sul Cittadino del 18 dicembre 1969 – Ma più ancora delle ferite, Agnelli risente ancora dello shock riportato”.
LEGGI l’anniversario della strage e la vittima di Usmate
«È stata una cosa terribile, senza una ragione» ripeteva Agnelli in quei giorni, quando confidava ancora che giustizia sarebbe stata fatta e presto, come mai davvero accaduto. «Dopo aver sbrigato una commissione a Merate sono andato come ogni venerdì a Milano. Ero arrivato piuttosto tardi, saranno state le 16 circa» e cioè mezz’ora prima dell’esplosione della bomba. «Avevo una certa premura. Dovevo tra l’altro incontrare un fornitore di medicinali per bestiame e saldargli un conto». Per firmare l’assegno andarono diritti al grande tavolo al centro della banca: quello sotto il quale si trovavano sette chili di tritolo. «In quel mentre mi si è avvicinato Meroni (Dino, ndr), un altro mio amico che mi doveva dei soldi. Mi ha firmato un assegno e poi mi ha chiesto l’esatta ubicazione di un negozio di corso Buenos Aires». Agnelli non lo sapeva, ma uno sguardo fuori dalle vetrate della banca gli permisero di vedere un altro conoscente, il «professor Borgonovo, che sapevo a conoscenza del negozio».
I minuti corrono. Quanto sarà passato tra ingresso, le firme dei due assegni, le chiacchiere? Quanto basta per essere arrivati a una manciata di secondi dalle 16.37, l’istante dell’esplosione. Quando la lancetta dell’orologio scatta sul 7, il monzese è sulla porta della banca: «Mentre stavo per varcare l’uscita ho udito un enorme boato e sono stato investito da una ventata di aria calda e da una luce accecante. È stato un attimo e mi sono ritrovato sul tetto di un’auto. Il mio amico era invece finito sotto. Ho intuito subito trattarsi di una bomba, ma non riuscivo a rendermi conto di cosa fosse esattamente successo».
Poi Patrizia, quindi l’ingresso nella banca. «Una visione impressionante. Gente che si muoveva tra i lamenti, invocava aiuto, corpi inermi, straziati. Ho avuto uno smarrimento, la sensazione di essere solo in mezzo a quell’inferno e sono corso fuori, mentre incominciavano ad affluire soccorritori». La farmacia di via Larga in cui venne medicato, l’invito ad andare al Policlinico per farsi togliere alcune schegge dalle ferite. “Agnelli porterà i segni di una ferita inguaribile – scrisse Nava – sarà la visione di quell’orrenda scena”.
«Non ho fatto altro che pensare quanto successo – disse ancora il monzese scampato alla strage – La notte non riesco più a dormire e provo ancora i brividi se penso che sotto quel bancone, mentre firmavo l’assegno, chili di esplosivo stavano per provocare uno scempio di vite umane».