Marina Spadafora. Dire chi è è davvero complicato. La sua energia la precede e stare dietro a tutti i progetti che ha fatto, che sta facendo e che farà fa girar la testa. In una sintesi ingenerosa e molto, molto parziale, la si può definire una ambasciatrice della moda etica nel mondo. Il riuso, il non spreco sono da sempre sue ragioni di vita e hanno radici lontane, in «una mia insegnante delle scuole medie che, quando avevo 11 anni, mi parlò di Gandhi e Martin Luther King. Ne rimasi affascinata – spiega Marina – e la mia vita cambiò per sempre».
Un cambiamento che per la designer ha voluto dire riservare sempre attenzione a tutto ciò che è etico anche in un mondo, come quello della moda, in cui il lusso può far perdere di vista l’attenzione verso gli altri a beneficio di se stessi.
Marina, ma perché una professionista della moda come lei sente la voglia di impegnarsi per un mondo più etico e che non sprechi?
«Ho sempre avuto attenzione per la giustizia sociale e ambientale. Ho avuto il mio brand, sono stata consulente del lusso per Prada, Ferragamo e altri grandi, ma ho sempre pensato che avrei potuto fare di più e mettere la mia professionalità al servizio di un settore più giusto. Così, a partire dal 2006/7 ho fatto il mio progetto sostenibile in Africa e da allora non ho mai smesso. Ho creato una collezione fatta tutta in Africa con tessuti biologici, organici. Si chiamava progetto Banuq (Beautiful African Natural Unique Quality.) e poi sono stata contattata da Cangiari brand di moda sostenibile calabrese che fa tessuti su telai a mano e dà lavoro fuori dalle logiche malavitose. Poi per 7 anni sono stata direttore creativo di Altromercato e lì ho lavorato con persone meravigliose».
Quindi la moda può essere sostenibile ed etica?
«Certo, ho conosciuto gli imprenditori sociali che fanno impresa pagando il giusto e offrendo condizioni sicure per i lavoratori e a fine anno, quando fanno il bilancio, il 10% dei profitti viene reinvestito in attività che migliorano la comunità come orfanotrofi, micro-credito e altro. La moda etica è il perfetto incontro tra capitalismo sfrenato e il comunismo o il socialismo. Nel 2014 sono stata coordinatrice di Fashion Revolution (movimento no profit, nda). Sono stata sempre consulente in modo da aver tempo da dedicare ai miei progetti etici».
Ma in Italia, siamo pronti alla moda e al consumo etico?
«L’attenzione e la sensibilità sta crescendo, io insegno in molte università in Italia e all’estero e i miei alunni all’inizio del corso sono disorientati, alla fine tutti arruolati e convinti ed entrano nei miei progetti.I ragazzi stranieri sono più svegli dei nostri nel settore del riuso, in Italia non si insegna la consapevolezza ambientale e sociale che invece andrebbe risvegliata e invece è trascuratissima».
Quali sono gli errori più frequenti che commettiamo quando acquistiamo e cosa possiamo fare per essere meno spreconi?
«Comperare d’impulso. Mai farlo; bisogna informarsi prima di comperare per capire se sto dando i soldi a una entità che si comporta bene o no, perché finanziamo la realtà che produce e che ci fa diventare complici. Poi dobbiamo comprare meglio, cose di qualità e farle durare nel tempo e, soprattutto, comprare un po’ di meno, mai buttare via, riparare gli oggetti, comprare vintage e fare il censimento del proprio armadio. Io ho scritto un libro su questo (“La rivoluzione comincia dal tuo armadio”). Bisogna comperare meno schifezze e accumulare il budget per comprare una cosa bella. Quando facevo magliette per altro mercato costavano 20 euro, ma erano di qualità. Oggi si è disabituati ai veri prezzi. Quelli troppo bassi non sono veri e i capi prodotti da aziende che non pagando le persone e inquino».
Che cosa la delude sul fronte del consumo etico in Italia?
«Le nostre istituzioni che non hanno ancora capito che enorme potenza è l’industria della moda. Di recente mi hanno invitata a parlare al Senato, per il Pnrr, e ho detto che la moda è la seconda potenza manifatturiera italiana e che lo Stato non aiuta le piccole e medi imprese, non spinge i giovani designer, non ha un minimo di lungimiranza. Tutto quello che viene prodotto nella moda europea viene dall’Italia eppure la Germania fa leggi molto decise e importanti per la moda ed è sulla bocca di tutti, noi no. Ci vuole un po’ più di strategia, invece siamo troppo comodi. Durante la pandemia il settore moda ha perso il 27% mentre quello della moda sostenibile ha guadagnato l’8,6%».
Progetti?
«Sto lavorando a un bellissimo progetto per aiutare i brand a riutilizzare lo stock invenduto con un D-Refashionlab, cioè offriamo un servizio con macchinari che permettono di modificare i capi invenduti di un certo pregio per rimetterli in commercio; questo è un progetto che faccio con e collaboro con Dyloan. Un altro progetto a cui sto lavorando è in Libano, aiuto la realtà Fabric Aid (riciclo di abbiglimento, nda) mettendola in contatto con Humana; hanno una linea con un atelier dove gli abiti da uomo vengono disassemblati per creare nuovi abiti molto divertenti, io faccio la supervisione artistica e li aiuto a piazzare i prodotti nei negozi».
E poi c’è la collaborazione con Humana…
«Un’esperienza bellissima, adesso li aiuto dal punto di vista mediatico. Sono la realtà più bella che esiste e finanziano progetti nel sud del mondo. Sono bravissimi».