Aylan morto sulla spiaggia: la foto da mostrare anche a un figlio

L’editoriale del direttore del Cittadino Martino Cervo, dedicato alla foto del piccolo Aylan morto sulla spiaggia di Bodrum.
Aylan morto sulla spiaggia: la foto da mostrare anche a un figlio

I bimbi dormono in pose impossibili: buffe, scomode. Il bimbo siriano che tutto il mondo ha visto, postato, condiviso, osservato con compulsività quasi pornografica, dorme per sempre con la stessa posa impossibile che i suoi coetanei hanno nel sonno.

Trattare un abisso di tenerezza e strazio come la foto del piccolo profugo raccolto da un soldato turco come materia da quiz («è giusto o no pubblicarla?») mette i brividi, per la sproporzione infinita tra l’immensità della morte innocente e la modalità espressiva del “mi piace” su Facebook. Però c’è qualcosa di riduttivo anche nella facile indignazione per il “dibbattito”, nel fastidio per il cicaleccio di frasi fatte sulla foto che “fa il giro del mondo”, nel moralismo da tre soldi sul bambino “ucciso da noi”. Sembra che nulla possa salvare da un ciclo in tre fasi: se ne parla, si depreca il fatto che se ne parli, si digerisce il tutto masticando un pensierino buono. Se c’è un “valore”, nella tremenda – per i alcuni inguardabile – foto di Aylan è nel suo essere un grido puro allo scandalo della morte. E questo dato irriducibile viene prima di qualunque tentativo di incasellare quel corpo schiaffeggiato dalle onde: il ruolo dell’Occidente, le “colpe” del disastro, le conseguenze politiche o mediatiche o estetiche, la “morale” da trarre sul dramma dei profughi che anche la Brianza vive nelle sue comunità.

Qualche mese fa Francesco ha citato Dostoevskij come «un maestro di vita», riprendendo un passaggio dei Fratelli Karamazov. Spiegava, il Papa, che «quella domanda ha sempre girato nel mio cuore: perché soffrono i bambini? Non c’è spiegazione. Mi viene questa immagine: a un certo punto il bambino comincia a fare domande. È l’età dei “perché”. Ma quando il figlio domanda, poi non ascolta tutto ciò che hai da dire, ti incalza con nuovi “perché?”. Quello che cerca, più della spiegazione, è lo sguardo del papà che dà sicurezza. Davanti a un bambino sofferente, l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché. Signore, perché? Lui non mi spiega niente. Ma sento che mi guarda. E così posso dire: Tu sai il perché, io non lo so e Tu non me lo dici, ma mi guardi e io mi fido di Te, Signore, mi fido del tuo sguardo». Ecco, se questa foto ridesta questa domanda, allora è giusto guardarla. Ed è giusto farla vedere a un figlio.