«La produzione italiana di carni è la migliore al mondo». Di questo Davide Nava, titolare di una azienda agricola, è fermamente convinto. I dati diffusi dall’Oms sul rischio tumorale correlato al consumo di carni rosse e lavorate «devono essere letti alla luce di alcune considerazioni». L’azienda Nava, operante a Roncello da decenni, è un allevamento suino di modeste dimensioni (ha 1.500 maiali) ma con tutte le carte in regola rientrare nella filiera del Dop (quella del Prosciutto di Parma, per intenderci).
«Innanzi tutto lo studio pubblicato dall’Oms non è differenziato ed è fortemente sbilanciato dai dati raccolti negli Stati Uniti o comunque all’estero – ha detto Nava – Nella nostra dieta mediterranea, il consumo di carni annuo è di 78,5 chili pro capite, contro quello americano di circa 125 chili. Anche la modalità di consumo è molto diversa, basti pensare che il diffusissimo barbecue americano cuoce le carni carbonizzando completamente alcune parti».
Quello che maggiormente deve rassicurare gli italiani, tuttavia, è la qualità delle carni prodotte sul territorio nazionale.
«Il 90% dei suini allevati in Italia rientra nella filiera del Dop. Questa etichetta è una garanzia, sia per noi produttori che per i consumatori. Stiamo lottando affinché si arrivi a un’etichettatura completa, che comprenda anche le carni lavorate». In attesa di questo risultato, quindi, il consiglio è di «cercare il marchio Dop o di fare un passo indietro, rivolgendosi a un macellaio di fiducia».
I disciplinari del Consorzio Prosciutto di Parma sono rigidissimi: «Per l’alimentazione si usano materie prime nobili (i cereali) e l’abbattimento deve avvenire ad almeno 10 mesi di età, portando il maiale a 180 chili (contro i 100-110 di tutti gli stati esteri) e a una giusta percentuale di grasso nobile. Non vengono utilizzati ormoni, né anabolizzanti, né antibiotici per favorire il benessere e la produttività degli animali. Infine ci sono delle regole sul benessere animale, assenti altrove». Il tutto è costantemente controllato dall’Asl e dall’Istituto Parma qualità.
Neppure le grandi aziende sono rimaste impassibili di fronte ai dati recentemente diffusi dall’Oms. La biassonese Rovagnati ha parlato per bocca della propria associazione di categoria, Assica (Associazione industriali di carne e salumi).
Il punto cruciale che si è voluto chiarire è che «in Italia il consumo di carne è molto al di sotto dei quantitativi individuati come potenzialmente rischiosi: il dato Iarc (agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) è superiore al doppio della media del consumo in Italia».
Nel contesto nazionale, infatti, «la carne e i salumi sono alimenti che contribuiscono al perfetto equilibrio nutrizionale garantito dalla Dieta Mediterranea». Ma non si tratta solo di quantità.
«La monografia Iarc si riferisce a dati provenienti da studi epidemiologici non recenti, che tengono in poco conto le peculiarità della produzione nazionale di carne rossa e salumi. È noto, infatti, che i fattori che rappresenterebbero un rischio per la salute (presenza di grasso e abbondanza di additivi nei prodotti trasformati) non sono certo propri della produzione italiana di carni bovine e suine e dei prodotti di salumeria».