Quella del 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, è stata l’ultima carica della cavalleria italiana: a compierla il 14esimo reggimento Cavalleggeri di Alessandria del Regio esercito italiano. Tra i soldati bisogna immaginare anche Nino Franzosi: monzese, classe 1920, abitava in via Brembo, a San Fruttuoso, e la sua è una storia di resistenza, e di liberazione, salvata dalla polvere della storia grazie all’interessamento di un altro monzese, Vittorio Rossin, che ne ha recuperato i diari e li ha donati al museo della Voloire, le leggendarie batterie a cavallo del regio esercito.
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Prima di finire in Germania, deportato in campi di concentramento e di lavoro, Franzosi era di stanza in Croazia: nel 1941, d’accordo con la Germania, il Regno d’Italia aveva ingrandito la provincia di Zara, annettendo anche parte della Slovenia e della Dalmazia. Il regio esercito era impegnato in operazioni di presidio e di controguerriglia: i partigiani di Tito, schierati nell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia, davano del filo da torcere alle potenze occupanti dell’Asse.
Bisogna immaginarlo a Poloj, allora, Nino Franzosi, impegnato in una carica – l’ultima, realizzata dalle truppe militari regolari – che ha regalato al 14esimo Cavalleggeri un’importante vittoria tattica e strategica. Poi, la polvere della storia si deposita sulle sue giornate: si arriva in fretta all’8 settembre del 1943, ai giorni dell’armistizio. Alla scelta che i soldati italiani dovevano affrontare: o continuare a combattere per l’esercito tedesco, oppure essere inviati ai campi di detenzione in Germania.
La sua storia ricomincia da lì: dalle pagine di un diario che ha scritto durante la prigionia. Le tappe del viaggio si ricostruiscono dalla cartina che ha tracciato a penna su una delle pagine ingiallite dal tempo e stropicciate dalle traversie: come tanti altri nelle sue stesse condizioni, non voleva più la guerra, Franzosi. E allora viene caricato su un treno: il viaggio è lungo e tra le pieghe della carta si individuano i 25 giorni necessari a raggiungere, dall’Austria, Wienzerdorf, in Pomerania, come scrive. Seguono 40 giorni d’attesa e altri quattro di viaggio, prima di arrivare a Flensburg, «a due chilometri dalla Danimarca»: lo precisa prima di iniziare il suo racconto.
«Ci fecero scendere dieci chilometri prima e poi ci fecero fare la strada a piedi, fino in città. Era inverno (l’inverno del 1944, nda) e dappertutto vi era neve e gelo. Noi sessanta stanchi ed affamati arrivammo a stento in una vecchia fabbrica di pesce in scatola».
Dagli abitanti del luogo venivano considerati dei traditori: traditori come lo era stato Pietro Badoglio, che a Cassibile il 3 settembre aveva firmato l’armistizio con gli anglo-americani. «Tutta la gente che incontravamo ci guardava in cagnesco. Noi non avevamo però nessuna colpa: ma come far comprendere a quella gente il nostro disagio e le nostre sofferenze?».
Non potevano farlo: a Franzosi e a tanti altri non restava che adattarsi alla nuova realtà, di prigionia, fatta di freddo e di stenti, impegnati come manodopera nell’agricoltura e nell’industria per sostenere lo sforzo bellico tedesco. Franzosi, elettricista, fu spedito a lavorare nelle officine della Bosch.
«Lui, e tanti altri internati militari italiani – ha concluso Rossin – non hanno ceduto: né alle torture, né al freddo, né alla fame. Gli sforzi di Franzosi sono stati premiati: nella primavera del 1945 è stato liberato dagli alleati. Ed è tornato a Monza, dove ha vissuto fino agli anni Settanta».