Edizione numero 19 della “Mostra delle macchine sportive ed accessori” al padiglione prefabbricato prospicente il Villaggio dell’autodromo. Da giovedì 30 agosto fino a domenica 9 settembre, il mondo piccolo della Monza da corsa celebra il rito pagano del Festival della velocità. Alfa Romeo 184T e Minardi F.1 sono il fiore all’occhiello dell’esposizione: poi, un gradino sotto, la March 822 Bmw di Formula 2, la March 813 Toyota di F.2000 e la Lancia Delta HF Turbo ufficiale. Romolo Tavoni è incazzoso e corrucciato come consolidatissima prassi. Organizzare l’esposizione a contorno del Gp non è mai facile: soprattutto per uno come il “ragioniere”, alle prese – more solito – con l’infinita montagna d’incombenze alla Direzione corsa. Nei due giorni di prove – ufficiose e poi ufficiali – per il 55° Gran Premio d’Italia, la novità più ghiotta della kermesse è la diretta di “Rombo Tv”.
Marcello Sabbatini trova l’accordo per intervistare Fangio in tivù. Sabbatini è uno degli ultimi romantici in servizio permanente effettivo nell’automobilismo sportivo. Amico intimo di Luigi Musso, Marcellino ha affinato il talento professionale scontrandosi – molto spesso – con Enzo Ferrari: da qui è scaturita una ”amicizia armata” che ha nobilitato il giornalismo a 300 all’ora. In compenso, i ragazzi del servizio non sanno un beato nulla di Juan Manuel Fangio. Tavoni sacramenta di suo e abbranca il telefono: senti, sei l’unico che ha un briciolo di conoscenza di Fangio. Come siamo combinati… Stacca un momento dal lavoro e corri in contro al coso.
Districarsi nella sarabanda della folla è impresa quasi disperata. Alla fine, a forza di spinte e ruzzoni, imbrocco l’uscita del padiglione e aspetto il cinque volte campione del mondo con la curiosità di chi ha l’inconscia paura del disinganno. Poi, dal cancello del vialetto della direzione gara, spunta un signore distinto che non dimostra i 73 anni all’anagrafe. Signor Fangio, piacere. Per di qua… Monza è muy speciale por mi, commenta piano. In due minuti, fendendo la calca, il signor Fangio è seduto negli improvvisati studi di Rombo Tv. Qualche giovinotto dai capelli bianchi riconosce il “Chueco” e si emoziona. Come passano gli anni, butta lì qualcuno. Anche i pischelli del servizio d’ordine s’interessano alla faccenda. Caspita, il vecchietto è ancora in gamba, concede uno dei più generosi. Sabbatini e Fangio si salutano come due sopravvissuti: una lunghissima stretta di mano che cementa una stima che è sopravvissuta a rancori e polemiche. Poi, via allo show. Il Drake è l’invitato di pietra all’appuntamento tivù, con le sue idiosincrasie, con le sue impuntature, con le sue ostinazioni.
Ferrari e il campionissimo argentino avevano dato vita ad una spietata polemiche sotterranea nella stagione 1956. La straziante morte di Dino aveva portato l’Omone a ipotizzare il ritiro dalle corse. Poi l’amor proprio e la passione viscerale per la meccanica avevano fatto il miracolo. Orfano della Mercedes, ritirata dopo la tragedia di Le Mans ’54, Fangio si era accasato alla Ferrari con la supponenza del più grande di tutti. “Su questo grande campione si sono sentiti giudizi ed opinioni discordanti, non tanto sul pilota, quanto sull’uomo – annotò più tardi Ferrari – Lo vidi per la prima volta nella primavera del 1949, all’autodromo di Modena. C’erano altri piloti, altre macchine. Lo osservai per un paio di giri, finii col tenergli gli occhi addosso. Aveva uno stile insolito: era forse l’unico a uscire dalle curve senza sbarbare le balle di paglia all’esterno. Questo argentino, mi dissi, è bravo sul serio: esce sparato, e resta nel bel mezzo della pista”. L’innamoramento per Fangio non scattò mai. Pilotato dall’esasperante consigliere Marcello Giambertone, l’argentino si laureò a Monza campione del mondo grazie al sacrificio in corsa del magnifico Peter Collins. Poi l’addio: “Fangio non ha mai sposato nessuna casa: conscio delle sue capacità ha rincorso tutte le possibilità di pilotare sempre la vettura migliore del momento, e ci è riuscito, anteponendo il suo egoismo – legittimo e naturale – all’affetto che ha legato invece altri grandi piloti alla vita di una marca nella buona e nelle cattiva sorte – la sentenza inappellabile del Commendatore – Ma ha sempre lottato non solo per il primo posto, ma anche per le classifiche di coda, pur di portare la macchina al traguardo”.
Gli anni e le vicende dell’esistenza riavvicinarono Ferrati e Fangio. L’avventate accuse di ieri del Chueco si trasformano nel riconoscimento a tutto tondo della grandezza del costruttore modenese. Appianate negli anni le divergenze, i rivali di un tempo si rispettano a ragione della straordinaria unicità dei due fuoriclasse. Morto Ferrari nel 1988, Fangio sopravvive alla fama e la dialisi. Ricoverato in una clinica di Baires per complicazioni al fegato, Juan Manuel muore la mattina di lunedì 17 luglio ’95, alle 4.30 di mattina. Il testamento è scarno e asciutto come piaceva lui: mai sposato nonostante la tormentata storia d’amore con Andreina “Bebe” Berruet e senza figli riconosciuti, Fangio lascia il suo patrimonio ad una fondazione che gestisce il museo a lui intitolato. In realtà, un figlio di “Bebe” Berruet e del Chueco c’è davvero: si chiama Oscar “Cacho” Espinosa, ed è nato il 6 aprile del ’38 a Balcarce. L’erede nascosto di tanto padre esordisce nel ’63 con una Bmw De Carlo, ma si ritarda alla Max y Sierras. Nell’anno successivo, Espinosa arriva quinto al circuito di Carlos Paz e a Lobos, dodicesimo al Max y Sierras e diciassettesimo a Tardoli, sempre con la fida Bmw De Carlo. Venduta la macchina, il “Cacho” compra una Renault 1093 con cui si mette in luce nel Gp Industrial de Turismo.
Nel ’65, il figlio naturale di Fangio diventa vice-campione argentino della Classe B con una stagione di grande sostanza (secondo all’Autodromo di Buenos Aires, a Lobos, terzo alla 500 chilometri di Baires, a Carlos Paz, quarto ancora a Carlos Paz, a La Cumbre, a San Pedro). Fidandosi delle sue qualità di pilota, il “Cacho” acquista una Brabham di Formula 3 e centra subito il terzo posto a Mar del Plata, il settimo a Rosario e si ritira a Buenos Aires. S’imbarca alla volta dell’Europa con la concreta possibilità di sfondare nell’automobilismo che conta: dopo un buon decimo posto a Londra, arriva – purtroppo per lui – la cocente delusione del Gran Premio della Lotteria di Monza. Domenica 26 giugno 1966, sulla pista stradale dell’Autodromo, ad imporsi è “l’uomo migliore sulla vettura più efficiente: il binomio Williams-De Sanctis promette di ripetere nella Formula 3 le gesta compiute l’anno scorso del duo Clark-Lotus nella Formula 1”.
Il pilota inglese è “sulla buona strada, e la sua prova nel “Lotteria” è degna di nota. Non si è mai abbandonato a tentativi spericolati per staccare il gruppo degli altri concorrenti, non ha mai forzato la De Sanctis fornitagli dal costruttore romano cercando di rimanere in testa, non preoccupandosi troppo se qualcuno riusciva a superarlo per qualche giro. Poi, sul rettilineo d’arrivo, alla conclusione della gara, ha mostrato le unghie. E’ uscito in terza posizione dalla “parabolica”, ma lanciatissimo: un attimo, e sul traguardo l’inglese Beckwith e lo svedese Thoroddsson si son visti sorpassare dalla rossa monoposto di Jonathan”. Detto la magra dei piloti italiani – il meno peggio è stato “Geki” Russo, che ha ottenuto il sedicesimo posto – “da segnalare l’esordio a Monza del figlio di Fango, il ventottenne “Cacho”. Il giovanotto è arrivato tredicesimo dopo una gara senza lode e senza infamia. Logico che da uno che porta il suo cognome ci si aspettasse di più, ma non bisogna neanche dimenticare che “Cacho” corre in F.3 da appena due-tre mesi. Per un giudizio approfondito occorrerà attendere almeno la fine della stagione”.
Dopo i fallimenti a Pergusa (11°). Monaco (12°) e ancora a Monza (ritirato), Oscar ritorna in Argentina e – nel ’67 – si butta nel Turismo Carretera al volante di un coupé della Chevrolet. Nella prima gara – la Mar de Plata-Miram – la vettura americana risulta inguidabile. Poi, al volante di una Lancia Fulvia HF ufficiale, il “Cachco” arriva secondo nel Gran Premio Industrial de Turismo. Nel ’68 – dopo aver conquistato il terzo posto a Entre Rios e il quarto a Balcarce e Allen al volante della solita Chevrolet – passa in corsa alla “Trueno Dorado”, con cui riesce ad avere qualche risultato più che significativo (terzo posto a Rafaela). Nel ’69 Espinosa – impegnato al solito dal massacrante Tc – ritorna in Europa per la disputa della “84 ore del Nürburgring” con l’autarchica “Torino” della Misiòn Argentina, alternatosi alla guida con Juan C. Salatino. Dopo le avare stagioni ’79 e ’71 (con la Fiat 1600 ufficiale è quarto nella prima tappa della Vuelta de la Manzana), il “Cacho” appende al chiodo i guanti da pilota. E non serve la tardiva resipiscenza – nel ’76 ritorna a correre alla Carrera de Pergamino e la Triàngolo de Cuyo con un Dodge – per accendere ancora la passione sopita.
Molto più fortunato il figlio del fratello minore di Juan Manuel, “Toto” Fangio, nato nel 1956 dopo la conquista del quarto titolo mondiale del Chueco con la Ferrari. Battezzato Juan Manuel Fangio secondo, il giovinotto vince per due volte la 12 Ore di Sebring e – per dodici anni – guida le vetture Eagle di Dan Gurney, ottenendo per due volte il titolo dell’American IMSA. Nel luglio del 2015, il 77enne Oscar “Cacho” Espinosa – stufo di bussare invano alla burocrazia argentina – chiede di essere riconosciuto come figlio di Juan Manuel Fangio. Dopo la riesumazione della salma di Fangio al cimitero di Balcarce, la prova di DNA è incontrovertibile. Il 10 dicembre il giudice Cataldo Rodigo di Mar del Plata sentenzia: lo studio genetico ha dato esito positivo con una percentuale di probabilità del 99,99985% e conferma Fangio è il padre naturale del “Cacho”. A rimorchio, pure il 73enne Ruben Vazquez chiede di essere riconosciuto figlio di Juan Manuel. Dopo le analisi di laboratorio, pure el señor Vazquez è dichiarato figlio naturale del campionissimo.