«Capisco molto bene chi lascia il proprio Paese per cercare una vita migliore: nessuno vuole dare fastidio. Io ce l’ho fatta e spero che la mia storia possa servire a chi oggi è disperato, ma anche a chi deve accogliere, perchè comprenda che non bisogna giudicare gli altri in base alla propria provenienza o stato sociale».
Klaudio Ndoja, 33 anni, albanese, racconta con orgoglio la sua storia, fatta di sofferenze ma anche di tanti successi. Scappato dalla guerra in Albania negli anni 90 insieme alla sua famiglia,giunto in Italia su un barcone, ha trovato la prima accoglienza in Brianza. Ha giocato nelle giovanili dell’Aurora Basket Desio e oggi è un giocatore di pallacanestro affermato. Ha militato in serie A1 con Brindisi, Cremona e Virtus Bologna. Oggi gioca nella Bertram Derthona, in A2. Tra un allenamento e l’altro, risponde volentieri alle domande sul suo arrivo in Italia. Anche se non è facile ricordare i momenti più difficili della sua vita, quando era un clandestino.
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«Sono arrivato in Italia nel 98 insieme alla mia famiglia. Siamo scappati dalla guerra. Fino al 2000, ho vissuto a Palazzolo Milanese. Passavo le giornate in oratorio a tirare la palla al canestro. Per me l’oratorio era anche un rifugio, perchè pensavo che lì non sarebbero arrivate le forze dell’ordine a controllare i documenti che non avevo.
E’ stato il parroco, don Marco, a notare la mia passione per il basket. Mi inserì nella squadra dell’oratorio e per poter iscrivermi al campionato del Csi, dato che non avevo documenti, mi fece un’autocertificazione della Chiesa. Così, iniziai a giocare. Dopo circa un anno e mezzo, dato che ero bravino, il prete mi indirizzò all’Aurora basket Desio. Ricordo ancora il primo giorno in cui arrivai al palazzetto Aldo Moro. C’era in corso una partita dei miei coetanei contro la Forti e Liberi di Monza. Chiesi di iniziare a giocare».
Klaudio, che allora aveva 15 anni, iniziò così a vestire la maglia dell’Aurora Desio. E la sua vita cambiò. «Per me, quegli anni sono stati fondamentali. Non solo per il basket, ma per la mia vita. La società mi aiutò ad ottenere i documenti e a trovare casa. Prima, senza permesso di soggiorno, io e la mia famiglia non potevamo fare niente. Non potevamo avere una casa in affitto, non avevamo l’assistenza sanitaria. Tutto era impossibile senza documenti. I primi due anni in Italia sono stati difficilissimi. Più difficili anche della guerra in Albania, perchè quando sono arrivato qui ho dormito sotto i ponti o nelle fabbriche dismesse e non avevo da mangiare. In Albania, almeno, un tetto ce l’avevo. Ma lì c’era la guerra. Non avevo futuro. La gente moriva. Mia sorella è stata colpita da un proiettile vagante».
Oggi Klaudio può dire di avercela fatta. «Lo dico con orgoglio, perchè ce l’ho fatta senza prendere strade diverse dai miei principi e dai miei valori. Spero che la mia storia possa aiutare chi arriva oggi in Italia nelle stesse mie condizioni. Non si può giudicare nessuno per la sua provenienza. E chi è qui, deve impegnarsi per migliorare la propria vita e contribuire alla crescita del Paese»