L’ha incontrato due volte, la prima anni fa per un tour promozionale della Nike. Alla Gazzetta dello Sport insieme ad altri giornalisti. La seconda è stata la più importante: nel 2016 a Reggio Emilia, a casa sua. Kobe Bryant aveva da poco finito la carriera da giocatore ed era impegnato in un tour per presentare il futuro. Un futuro costruito su tutto quello che era stato e che sarebbe diventato la “Mamba Mentality”, ovvero il suo basket spiegato al mondo. E lì, seduto nel campetto dell’oratorio con intorno gli amici dell’infanzia impegnati in una partitella, il giornalista seregnese Roberto De Ponti, “firma” della redazione sportiva del Corriere della Sera, ha conosciuto da vicino Kobe Bryant.
Il campione è morto domenica scorsa in un incidente aereo in California, precipitato con un elicottero su cui viaggiava insieme alla figlia Gianna Maria, 13 anni e sua erede naturale sui campi di basket, e altre otto persone. Aveva 41 anni.
«In quell’occasione avevo avuto l’impressione di cogliere l’aura che differenzia il fenomeno dal campione – racconta oggi il giornalista, tornando a quella che a mente fredda rimane l’ultima intervista di Bryant a un quotidiano italiano – Era un personaggio che andava oltre lo sport, uno dei pochi al mondo per cui non serve specificare il cognome: Kobe, e sai già di chi si sta parlando. Mi aveva colpito come fosse a proprio agio nel raccontarsi, parlando in italiano e come fosse “italiano” nel parlare: aveva una gestualità spiccata e cercava il contatto per rendere più forte il concetto».
A casa sua, a Reggio Emilia, perché Bryant è cresciuto in Italia: dai 6 ai 13 anni, quando il padre Joe giocava in serie A. Rieti (1984), poi Reggio Calabria, Pistoia e infine in Emilia. Per lui questo è sempre stato un passaggio importante: «Gli piaceva non parlare solamente di basket, ma di fatti della vita. Era ferocemente determinato nel difendere le sue scelte. Ed era molto legato a queste sue origini italiane: aveva scelto nomi italiani per tutte e quattro le figlie, ha voluto che le maggiori imparassero la lingua. Ne amava la cucina, la storia, i profumi, l’arte e l’architettura. E riconosceva all’Italia di averlo fatto diventare il campione che era, perché qui aveva imparato la tecnica, gli erano stati insegnati tutti i fondamentali per l’impostazione di far giocare i bambini in tutti i ruoli». Un vantaggio che in suo possesso si è trasformato con talento innato, determinazione, ossessione per la perfezione in un’arma in più. Un talento che aveva trasmesso alla figlia Gianna, detta Gigi, e un’etica del lavoro che di certo le stava insegnando. Perché “se non credi in te stesso, nessuno lo farà per te”, la sua sentenza.
«Era un padre affezionatissimo. E aveva sempre detto che non sarebbe stato fondamentale cercare un figlio maschio per portare avanti la tradizione del nome nella pallacanestro perché c’era Gigi: ci sono video in cui si vede lui che le spiega la partita che stavano guardano. Oppure quello di un allenamento in cui lui difende e si fa battere in terzo tempo. Questo rende tutto ancora più tragico».
La formazione nel periodo italiano ha aiutato Bryant non solo nella tecnica. Spesso ha amato raccontare come si rivolgesse agli arbitri in italiano e con il sorriso per non fare capire che in realtà stava contestando un fischio.
«Scherzava sul fatto che con il compagno di squadra Sasha Vujacic, sloveno che aveva giocato a Udine, usasse l’italiano per non farsi capire dagli avversari».
Un ricordo che sta più a cuore di tutti? «L’amabilità della nostra conversazione che, dopo i primi minuti impostati su un incontro di lavoro, si era trasformata in una chiacchierata in cui si era lasciato andare anche a battute considerando, conoscendosi, che “doveva essere la nostra giornata fortunata”. È l’atleta più straordinario che abbia incontrato nella mia carriera di giornalista – conclude De Ponti – Resterà una leggenda che non morirà mai».