Basket, addio a Bob Lienhard: stella con Cantù, giocò a Monza nella Forti e liberi

Il basket italiano, e quello brianzolo in particolare, è in lutto. È morto Bob Lienhard, 70 anni per un male incurabile. È stato un simbolo dell’epopea internazionale della Pallacanestro Cantù, che con lui divenne “Regina d’Europa” nel corso degli anni ‘70 Ma il suo nome è legato anche a Monza, alla Forti e liberi.
Bob Lienhard
Bob Lienhard

Il basket italiano, e quello brianzolo in particolare, è in lutto. È morto Bob Lienhard, 70 anni per un male incurabile. È stato un simbolo dell’epopea internazionale della Pallacanestro Cantù, che con lui divenne “Regina d’Europa” nel corso degli anni ‘70. Dopo lo scudetto del 1975, infatti, negli anni di Lienhard il club del presidente Allievi e del capitano Pierluigi Marzorati conquistò una Coppa Intercontinentale, due Coppe delle Coppe e tre Korac.

Un lutto che colpisce al cuore anche Monza. È il 1983, la Forti e Liberi dei “monzesi” ha chiuso un ciclo tornando in C1 con coach Paolo Fontana. Si entra negli anni d’oro della pallacanestro, ma serve fare un passo avanti. Così da Treviglio arrivano lo sponsor Uteco, il direttore sportivo Ambrogio Riva, il tecnico Euro Abate, e la stella in campo, Bob Lienhard. Quando arriva a Monza, Lienhard ha 35 anni, è italiano da 5, ma viene letteralmente da un altro mondo, tanto che, quando si mette a fare stretching prima di ogni partita, i nuovi compagni credono che stia per spaccarsi la gamba. Bob Lienahrd è il primo americano della società, e il suo percorso parte da molto lontano.

Precisamente dal Bronx, New York. È lì che Robert Louis “Bob” Lienhard nasce, nel 1948, figlio di due emigrati tedeschi. È alto, il ragazzo, non troppo veloce. Soprattutto è buono e amichevole. E gioca molto bene pallacanestro. Alla Rice High School, insieme a Charlie Yelverton (più tardi a Varese e Saronno), incrocia sui campi Lewis Alcindor, (ossia il giovane Kareem Abdul-Jabbar). Ma a vincere il titolo liceale dello stato è la Rice di Lienhard. Al college, a sorpresa, non sceglie, come tutti i cattolici newyorkesi la St. John University, ma va l’Università della Georgia, che con lui al primo anno conosce la prima stagione vincente da una dozzina d’anni. È scelto dalla NBA (numero 61 dai Phoenix Suns), ma è troppo lento, così Gamba e Rubini lo portano in Italia per un provino con la Simmenthal Milano, che alla fine gli preferisce Art Kenney.

Cantù non ci pensa su due volte e lo firma. È il 1970, e in otto anni in Brianza vince tutto: uno Scudetto, tre Korac, due coppa Coppe, una Intercontinentale. Dai palazzoni del Bronx alle colline verdi della Brianza il salto è notevole, ma per Bob è perfetto. Nel ’73 sposa Angela, e nel ’78 diventa cittadino Italiano. Non per la Federazione però, così Cantù lo lascia andare e lui si trova senza lavoro. Lo aiuta lo storico dirigente Corrado, che lo fa lavorare nel suo studio contabile. Rifiuta anche proposte dalla serie A («Avrei dovuto lasciare il lavoro, voltando le spalle all’unico che mi ha aiutato quando avevo bisogno», dirà), poi nel 1980, la federazione consente agli oriundi di giocare nelle serie minori. Va subito a Treviglio, dove resta tre stagioni con due promozioni fino in B. Nel 1982, una gara interna decisiva per la promozione, Bob arriva in spogliatoio senza le scarpe. Porta il 54, nessun compagno va oltre il 51, così, parte una chiamata ad Angela: appuntamento per la consegna ad un dirigente al Rondò dei Pini a Monza, poche centinaia di metri da quella che sarà la sua nuova casa. Quando arriva a Monza Lienhard è un mostro di fisicità (2,08 metri per 115 chili e una gran forza) e tecnica (soprattutto a rimbalzo), ed è un americano atipico. Vuole avvicinarsi a casa (vive a Cantù), ma anche mantenere alto il suo nome, così domina ancora in campo facendo da chioccia ai giovani. Il primo anno arriva la promozione in B, poi due stagioni per la squadra un po’ sotto le aspettative che portano, nel ’86, all’esonero di coach Abate.

È Lienhard a diventare allenatore, restandovi fino al 1988. Stagioni senza squilli, ma lui è ben voluto da tutti, perché è il classico gigante buono, lo era in campo e lo è fuori. Con qualche eccezione: qualche anno prima, in un torneo estivo a Desio, Giorgio Casati gli urla un “desciules” (Bob parla perfettamente il dialetto, se mai ce ne fosse bisogno), trovandosi un istante dopo la sua scarpa 54 a pochi centimetri dalla faccia. Ma è un’eccezione, perché era davvero amico di tutti, coach, compagni (Racalcati, Marzorati), dirigenti, tifosi. a.