Perché c’era tanta gente e tanta atletica (Giomi, Arese, Panetta, Cova, Mei, Zuliani, Preatoni e Marchei) al funerale di Franco Sar, mercoledì mattina nella chiesa di San Giuseppe a Monza? Le risposte possono essere tante.
Perchè ha avuto una storia personale da romanzo: famiglia friulana emigrata in Sardegna, dove era nato (oggi Arborea, allora Mussolinia) il 21 dicembre 1933, gli inizi lavorativi da tornitore, il trasferimento in Lombardia (Brescia, dove aveva conosciuto la moglie, Irma, 52 anni di matrimonio), per motivi atletici (l’alto magistero di Sandro Calvesi), e l’approdo a Monza, il suo buen retiro. Oppure perchè è stato il più forte decathleta italiano di sempre, sesto nella storica gara dei Giochi di Roma 1960, drammatica e spettacolare nel suo sviluppo.
Oppure perché, da direttore tecnico della Snia di Varedo, ha forgiato tantissimi campioni (da Azzaro a Paola Pigni, da Preatoni a Simeon e Sguazzero, da Bello a Fusi e Trachelio). E ancora: perchè quando la Snia si è sciolta, invece di godersi un po’ di riposo, ha avuto il coraggio di ripartire da zero, mettendo in piedi prima Atletica 2000 e poi Abc Progetto Azzurri, l’ultimo sogno di una vita tutta dedicata all’atletica.
In realtà San Giuseppe era piena di gente, partecipe, ma chi c’era, più che piangere un’assenza, ha voluto celebrare una presenza. L’entusiasmo di Sar era contagioso e senza fine; perché in lui c’erano competenza, passione e attenzione ai valori etici. E poi Sar è stato la guida sicura per i suoi allievi, un esempio di serietà e di discrezione, ma anche uno stimolo ad andare avanti, sempre e comunque, una specie di confessore laico, entusiasta della vita e dello sport.
Sabato 6 ottobre sarebbe andato a Rieti, per vedere una velocista e uno sprinter, categoria cadetti, che gli facevano immaginare un grande avvenire. Invece se n’è andato all’alba di lunedì 1° ottobre, giorno di San Remigio, con un grande cruccio: l’Arena di Milano, dove aveva passato gran parte della sua vita da atleta e da tecnico, ridotta a parco giochi. Un segno dei tempi, di un’atletica mai così pallida, della storia ignorata e disprezzata da chi, invece, dovrebbe coltivarla.