Monza: condannati i “cannibali” della auto rubate, i pezzi venduti in Polonia

Un giro di auto rubate, smontate, cannibalizzate con i pezzi rivenduti in Polonia: il tribunale di Monza condanna dodici imputati, le pene più gravi a due fratelli.
Uno sfasciacarrozze
Uno sfasciacarrozze

Condanne da uno a otto anni per gli imputati coinvolti nel giro di auto rubate e riciclate che ruotava attorno all’autodemolitore Dam, di viale delle Industrie. La sentenza, pronunciata nei giorni scorsi a seguito di patteggiamenti o processo col rito abbreviato davanti al gup nei confronti di una dozzina di imputati, ha stabilito la pena più alta per due fratelli A. C. e D. C., 39 e 40 anni, il primo di Lissone, il secondo formalmente residente a Palermo.

Alcuni imputati hanno ottenuto una condanna ridimensionata rispetto alle richieste dell’accusa, come G. A., difeso dall’avvocato Amedeo Rizza, assolto dal reato associativo e da tredici accuse di riciclaggio (per lui condanna a due anni rispetto a una richiesta della procura a 5 anni e 4 mesi). Oltre venti i capi di imputazione contestati dagli inquirenti. Al centro delle indagini c’era l’impresa di autodemolizioni Dam, al civico 15 di viale delle Industrie, dei fratelli C. Un’impresa trasformata in uno dei più attivi centri per il riciclaggio di automobili rubate di tutto il nord Italia. Veicoli che, prima di essere distrutti, venivano smontati e per inviare i singoli pezzi di ricambio in Polonia.

L’inchiesta era nata da un controllo della Polstrada di Venezia, che a dicembre 2017 aveva fermato un furgone carico di pezzo di ricambio automobilistici, proveniente dal casello di Agrate Brianza, e condotto da un autista polacco. Questo, di fronte agli agenti, aveva esibito una bolla di acquisto della Dam di Monza. Il modus operandi, del gruppo, prevedeva al vertice i Careccia, i quali, una volta ricevute le informazioni, impartivano istruzioni circa il luogo in cui andare a recuperare la macchina rubata, di solito distante non più di mezz’ora dalla sede. Gli addetti al recupero venivano forniti di un jammer, apparecchio in grado di inibire eventuali localizzatori satellitari. Gli addetti si muovevano in coppia. Andavano sul posto con un’auto “pulita”, e ritornavano con il mezzo rubato in sede. Qui veniva smontato, “cannibalizzato”, privato delle targhe, e infine distrutto (almeno quel che ne restava). I pezzi di ricambio venivano poi rivenduti o immessi nel commercio clandestino, rivolto specialmente ai paesi dell’Est Europa.