A vederlo per le strade di Monza, con la sua immancabile bicicletta e il borsone con tutto l’occorrente per giocare a tennis nelle pause tra un fascicolo e l’altro, nessuno, tra chi non lo conosceva, poteva immaginare che lui, Walter Mapelli, era il magistrato protagonista di inchieste che hanno fatto epoca in Brianza e non solo. Il pubblico ministero della tangentopoli monzese degli anni 90 e quello di indagini che hanno fatto parlare l’Italia, come quella sul lotto truccato o la caccia al tesoro Imi Sir, o ancora Cirio, Impregilo, il traffico d’armi con la Sierra Leone.
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Girava così per le strade della sua città perché in fondo, nonostante la sua posizione e la delicatezza delle situazioni che trattava, si sentiva uno come gli altri, che cercava di fare il suo dovere nel suo lavoro come molti lo facevano nel loro. Capace, nel caso, di tirare fuori le unghie e di mettere alle strette chi secondo lui non la raccontava giusta, ma pronto, dal punto di vista umano, a stringere rapporti con tutti.
E nel suo ufficio non era difficile trovare oltre a colleghi, forze dell’ordine o avvocati, semplicemente amici che lo venivano a trovare.
Ma se c’è un tratto distintivo di Walter Mapelli quello era la curiosità intellettuale, la voglia di approfondire qualsiasi aspetto della vita, non solo per scoprire gli autori di qualche reato e i meccanismi di affari illeciti. Con lui si poteva parlare di corruzione, certo, lo ha fatto anche scrivendo un libro, di economia e criminalità economica, il settore di cui si è occupato principalmente negli ultimi anni di permanenza a Monza prima della sua avventura a Bergamo come procuratore capo, ma anche di altri argomenti che con la professione c’entravano poco o niente, come le grandi battaglie del passato e le strategie militari, l’amata letteratura russa, fonte inesauribile di spunti per imparare a conoscere a fondo l’animo umano, o la musica.
Una curiosità a tutto tondo che anche nel suo lavoro lo spingeva a non occuparsi solo dei singoli casi giudiziari, ma a ragionare in termini complessivi del sistema giustizia, interessandosi di organizzazione e ottimizzazione del lavoro, della giustizia come servizio. Temi sui quali si era impegnato a Monza e che stava sviluppando anche nel suo ultimo incarico, a Bergamo.
E anche quando sopportare la malattia che gli era stata diagnosticata due anni fa cominciava a diventare pesante e la speranza di farcela iniziava a vacillare il suo pensiero andava a quello che avrebbe voluto fare per rendere ancora più funzionale l’ufficio giudiziario che dirigeva, al rammarico di non poter dedicare tutte le sue energie al suo incarico. Ma era anche consapevole, lo diceva apertamente, della qualità degli incontri che gli aveva riservato la vita. Prima di tutto una famiglia unita, con la moglie Laura e i figli Francesca e Marco che gli sono stati sempre vicini aiutandolo ad affrontare per quanto possibile con serenità questo ultimo tratto della sua esistenza, e poi le persone che il suo lavoro gli ha permesso di incontrare: i colleghi della squadra di pm guidata dall’inizio degli anni 90 da Antonino Cusumano, in primis Alessandra Dolci, con la quale ha condotto l’inchiesta della Mani pulite brianzola, quelli che sono arrivati successivamente a Monza e che hanno avuto comunque in lui un punto di riferimento, un fratello maggiore a cui chiedere consiglio, gli investigatori che lo hanno affiancato, in particolare quelli della Guardia di finanza e i collaboratori che hanno avuto a che fare con lui in Procura.
Teneva corsi, partecipava a convegni dove spesso era chiamato come relatore sulla criminalità organizzata, sulla criminalità economica, sulle procedure fallimentari e il ruolo dei pm. Insomma era impegnato su tanti fronti. Anche per questo mancherà a molti. Era una persona di grandi capacità, di grande energia, che ha saputo affrontare la difficile prova della malattia con dignità. Il suo passaggio ha lasciato un segno indelebile in piazza Garibaldi.