Dodici pagine intense. Ricordi, voci e testimonianze raccolte nei mesi della prima ondata della pandemia. Anche la prima linea dell’ospedale san Gerardo, amministratori (in primis il direttore generale Mario Alparone) e medici hanno raccontato le loro tante ore drammatiche all’interno del volume “Esperienze di vita nei giorni del silenzio – La Bicocca ai tempi del Coronavirus” a cura di Giampaolo Nuvolati, edito da Nomos Edizioni.ASST.
Tutto ha inizio il 21 febbraio 2020 quando la Direzione Generale Welfare della Regione Lombardia comunicava ufficialmente ai direttori strategici delle ASST lombarde che il Covid-19 era arrivato anche da noi, con il primo paziente infetto identificato a Codogno. Il giorno successivo la direzione generale dell’ASST Monza, partner principale del Dipartimento di Medicina e Chirurgia della Bicocca, costituiva l’embrione di quella che diverrà l’Unità di crisi stabile.
«Da quel momento-rammenta Alparone- ci siamo riuniti due volte al giorno per oltre due mesi. Le riunioni erano molto strutturate e ordinate e consentivano di conoscere e condividere i dati che ci servivano per navigare nella tempesta. La nave non è naufragata e siamo riusciti a raggiungere le acque calme. Tutti a bordo, convinti e compatti. Tre sono le caratteristiche necessarie per non essere travolti in una situazione del genere: coraggio, enorme determinazione e lealtà nei confronti del gruppo.»
La situazione è apparsa, tutto sommato, gestibile fino a metà marzo:«ma il 18 dello stesso mese- si legge tra le righe- iniziava una drammatica curva esponenziale di accessi al pronto soccorso che al suo zenit porterà al ricovero di quasi 600 pazienti presso l’ASST di Monza. Molti di noi ricordano la drammatica giornata del 19 marzo durante la quale giunsero al pronto soccorso più di 20 ambulanze contemporaneamente, molte di loro dalla bergamasca, e le loro sirene ci segnalavano incessantemente lo stato di emergenza. Il fenomeno nuovo e parzialmente inatteso nella sua entità e gravità costrinse l’Unità di crisi a ridisegnare rapidamente l’assetto dell’ospedale, interrompendo progressivamente tutte le normali attività cliniche».
In poco tempo il san Gerardo veniva trasformato in un enorme reparto di malattie infettive, occupando le degenze e le terapie intensive e subintensive, rapidamente incrementate nel numero di letti disponibili. Solo l’unità di cura cerebrovascolare e la cardiologia avevano mantenuto le loro consuete funzioni per accogliere pazienti affetti da ischemia cerebrale e cardiaca.
Ricorda il dottor Giuseppe Foti: «La prima arma che abbiamo messo in campo è stata la CPAP, confidenzialmente chiamata ”scafandro”, Siamo arrivati ad avere oltre 120 CPAP in funzione contemporaneamente, trasformando le degenze dell’Ospedale in una enorme terapia semintensiva, la più grande d’Italia». Un ulteriore problema per i medici era capire come andavano curati dal punto di vista farmacologico questi pazienti che presentavano una malattia determinata da un virus sconosciuto.
«Covid-19- afferma il dottor Paolo Bonfanti- è una malattia che non esisteva su nessun libro di testo scientifico fino a pochi mesi fa. Eppure, in poco tempo ha cambiato il nostro modo di fare medicina e il nostro modo di vivere. Ancora oggi, dopo diversi mesi dall’inizio dell’epidemia, stiamo imparando giorno dopo giorno a conoscere il profilo epidemiologico e clinico di questa malattia e abbiamo imparato di nuovo che per conoscere occorre un metodo, che ci deriva dalla grande cultura della medicina occidentale fondata sulle evidenze scientifiche».
Vi è una cosa su cui tutti gli operatori fin dal primo giorno concordano: del Covid-19 avrebbero fatto volentieri a meno, ma il gruppo di lavoro è stata la risorsa preziosa che ha permesso di andare avanti, che ha sostenuto, accolto, vinto il senso di isolamento. Ricorda Paola Cristaldi, una giovane specializzanda: «Le mascherine ci hanno coperto il viso, ma non hanno impedito la possibilità di far emergere oltre agli aspetti tecnici, anche molti aspetti umani. Negli occhi dei miei colleghi, unica parte visibile, ho rivisto le mie stesse emozioni e insieme abbiamo condiviso una vicinanza affettiva che ha superato ogni distanza di sicurezza. Insieme abbiamo accudito i pazienti, condiviso con le loro famiglie la gioia della dimissione e la tristezza della morte, confortato la loro solitudine, alleviato le loro paure, curato la loro fame d’aria. Nonostante abbia lasciato un profondo segno nella mia vita, ho vissuto un’esperienza unica e coinvolgente dal punto di vista formativo.»