Due anni di contratto di solidarietà per 340 lavoratori, integrazioni salariali per far fronte ai tagli del Job Act e appuntamenti mensili tra lavoratori e azienda per monitorare la situazione. Sono questi in estrema sintesi i contenuti dell’incontro che si è tenuto martedì tra rappresentanti dei lavoratori e vertici Candy. All’ordine del giorno c’era proprio l’apertura di un nuovo contratto di solidarietà a pochi giorni dalla scadenza di quello precedente. «Abbiamo siglato un verbale d’accordo -ha riferito Paolo Mancini delle Rsu- lunedì lo illustreremo nei dettagli ai lavoratori e, se lo approveranno, a metà mese lo firmeremo. Il contratto riduce ulteriormente il lavoro perché l’azienda non vuole andare oltre le 330mila macchine prodotte all’anno contro le 400mila circa fatte finora».
È proprio il calo di volumi che determina l’incremento dell’esubero. Il vecchio contratto di solidarietà era tarato su una previsione di esuberi di 250 persone, quello nuovo, completamente riscritto, ne prevede poco più di 340.
Da qui la mannaia sull’orario di lavoro. Il documento dispone per ogni dipendente l’attività su 3 giorni alla settimana, per quattro ore. Finora si lavorava 4 giorni, per quattro ore. Il totale settimanale passa dunque da 16 a 12, con possibilità di incremento in occasioni particolari, a seconda anche della stagionalità. In questo modo cala necessariamente anche lo stipendio. Il calcolo approssimativo è di 180 euro in meno al mese, considerando anche che il Job Act equipara la retribuzione del contratto di solidarietà a quella della cassa integrazione. «Per questo avevamo chiesto alla Candy lo sforzo di integrare le retribuzioni -ha ricordato Mancini- e nell’incontro di martedì ci è stata data risposta positiva, avremo una parziale integrazione salariale attraverso i premi».
All’azienda i rappresentanti sindacali hanno chiesto inoltre verifiche mensili perché il contratto di solidarietà non sia solo un modo di temporeggiare, ma un periodo in cui provare a cambiare le cose. L’obiettivo, insistono i sindacati, è quello di provare a ribaltare le decisioni dei vertici aziendali, ovvero ridurre al minimo la produzione in Italia e trasferirla nello stabilimento cinese dove i costi sono largamente inferiori: «330mila pezzi all’anno -avrebbero detto i vertici aziendali martedì- forse qualcosa di più, ma scordatevi che si salga oltre i 350mila”. Come dire, il quadro è quello. “Non possiamo adagiarci -sostiene però Mancini- lo diremo ai lavoratori, occorre mettersi a un tavolo in questi due anni e provare a cambiare le cose altrimenti ci ritroveremo nel 2017 allo stesso punto. È lampante per tutti: passare da 580dipendenti a 250 in uno stabilimento così grande significa avviarsi alla chiusura».
Intanto giovedì la Quarta commissione della Regione Lombardia, che si occupa di Lavoro, sentirà, come annunciato nelle scorse settimane, la famiglia Fumagalli, proprietaria dell’azienda. Un’audizione che potrebbe chiarire prospettive e futuro dell’azienda.