Un bimbo morto nel grembo della madre e un dolore infinito che sarà rievocato a distanza di tre anni in un’aula di tribunale. Inizierà il 6 marzo prossimo al tribunale di Como, infatti, il processo civile per cercare di accertare eventuali responsabilità.
La vicenda
I fatti risalgono all’ottobre 2014, quando Rosy (un nome di fantasia), allora 27enne residente a Cabiate, era in attesa di dare alla luce il suo primogenito. Ad una settimana dal previsto parto si recava nello studio di Mariano Comense della sua ginecologa per una visita di controllo, sostenendo che non sentiva molto il movimento del bambino. Secondo la ricostruzione dell’accaduto, dopo una breve visita e al termine di un’ecografia, la ginecologa (che aveva ravvisato un battito rallentato del nascituro), inviava Rosy al pronto soccorso di Carate Brianza senza allertare l’ambulanza. Su un ricettario scriveva che Rosy necessitava di visita approfondita senza tuttavia avvertire (ed è questo uno dei nodi da sciogliere) dell’arrivo in nosocomio della donna.
Rosy, giunta a Carate in compagnia del marito, veniva accettata al pronto soccorso alle 20.45 e visitata alle 21.47, dopo più di due ore dall’uscita dall’ ambulatorio. Al pronto soccorso effettuavano l’ecografia e la trasportavano in reparto dove veniva informata che il battito del bambino era cessato e veniva trattenuta. In reparto restava due giorni dove le venivano somministrate una serie di farmaci, dopo di che veniva indotta al travaglio partorendo naturalmente il bimbo morto. In quei giorni di dolore e pena veniva sostenuta dall’affetto e dalla premura dei suoi cari. Al momento delle dimissioni l’ospedale le affiancava una psicologa per una serie di cinque incontri.
La battaglia legale
Fin qui la cronaca. Il resto fa parte della cronaca giudiziaria e dell’inevitabile battaglia tra perizie. Rosy informava del suo caso un avvocato che chiedeva un incontro conoscitivo con la ginecologa. Tuttavia, il medico si sarebbe limitato a sporgere denuncia alla sua assicurazione che non si presentava in sede di mediazione. A quel punto Rosy si vedeva costretta a citarla in giudizio chiedendo il risarcimento del danno. I periti, nel frattempo, avevano stabilito che per il caso di Rosy, la ginecologa avrebbe dovuto «adottare le elementari linee guida della professione e i provvedimenti per evitare il decesso del bimbo omettendo anche la valutazione mediante Dopler dell’arteria ombelicale».
E, ancora, «avrebbe dovuto, altresì, allertare il pronto soccorso ostetrico di Carate per il taglio cesareo d’urgenza e richiedere d’urgenza un’ambulanza per il trasporto della paziente, e nell’attesa dell’autoambulanza avrebbe dovuto collocare la gravida in posizione genupettorale o in trendelenburg».
Versione, naturalmente, che verrà contestata dalla difesa in aula. Il bambino che aveva in grembo Rosy era un maschio del peso di 3,20 chili, lungo 50 centimetri. Il referto autoptico dice di «morte endoeuterina dovuta ad insufficienza vascolare e insufficienza placentare, trombosi venosa». Rosy, difesa dall’avvocato Elisa Grosso di Seregno, dice: «Ho deciso di chiedere il risarcimento danni perché non vorrei che altre mamme in attesa patissero le mie sofferenze ed incubi che ancora oggi mi trascino, nonostante sia ancora seguita da una psicologa».