Il 9 novembre 2019 è il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino e dell’apertura delle frontiere nella capitale tedesca. Era il 1989. Il Cittadino celebra la giornata con due storie: quella della monzese Adriana Buccheri, studentessa in Germania nei giorni in cui fu costruito; e quella di Ursula Sommer, tedesca che vive a Monza dal 1971 e vide la caduta del muro dalla Brianza. Per riabbracciare finalmente a capodanno i cugini rimasti dall’altra parte.
La monzese a Berlino. Nell’agosto 1961, mentre Berlino veniva divisa dal muro, Adriana Buccheri, era una giovane studentessa all’Università di Tübingen. «Ricordo le prime pagine dei giornali, le prime immagini alla televisione, ma soprattutto l’aria che si respirava tra i miei compagni di corso. I giovani tedeschi facevano fatica a commentare, Berlino era un simbolo del passato recente che volevano dimenticare, tutti erano molto più concentrati sul presente».
Dopo Tübingen ci fu presto una nuova occasione per tornare in Germania e scrivere la tesi di laurea. Questa volta il periodo è lungo, quasi un anno all’università di Mainz, e c’è l’opportunità di entrare a Berlino un anno dopo la costruzione del muro.
«Lo vidi lungo Bernauerstrasse, era già alto con il filo spinato, le torrette. Ricordo l’impressione che mi fece un cimitero diviso a metà dal muro e le finestre murate delle case di Berlino est che si affacciavano verso Berlino ovest. Quella parte di città che aveva colori e luci occidentali non doveva essere vista».
C’era ancora chi tentava la fuga da una parte all’altra della città anche attraverso i condotti fognari, ma l’impresa finiva quasi sempre in tragedia.
«Nella parte ovest la città era già vivace – ricorda – con tanti cantieri aperti, bei negozi, si mangiava e si alloggiava bene. La parte orientale era un altro mondo».
La prima visita è con un gruppo organizzato: una trentina di giovani da ogni parte d’Europa con due guide turistiche ad accoglierli nella Berlino est, perché le guide della Berlino ovest non potevano varcare la frontiera: «Ci hanno fatto salire su un autobus e non ci hanno permesso di scendere. Abbiamo fatto un giro in tondo in Alexander Platz dove solo le facciate dei palazzi erano state ricostruite, come le quinte di un teatro. Dietro c’era il vuoto, ma non volevano che si vedesse. Nel nostro gruppo c’era anche uno studente russo: la sera prima fu chiamato in albergo e gli vietarono di entrare in Berlino est».
Quel giro “turistico” non convinse nessuno di quei ragazzi del 1962 che decisero di entrare a Berlino Est in modo autonomo: «Non era facile – ricorda Adriana – ci fu un lungo controllo al check point Charlie, ci ritirarono i passaporti. Una volta liberi di camminare nelle strade della Berlino sovietica ci trovammo davanti quello che non ci fu permesso di vedere la prima volta: le case distrutte dalla guerra e non ricostruite, qualche monumento di impronta sovietica, nessuna luce per strada, quasi nessun negozio. Fu difficile perfino trovare un bar con qualcosa da bere».
Nell’unico bar avviene l’incontro con un giovane della Germania orientale: «Sembrava uno studente interessato al nostro gruppo internazionale; ricordo che mi fece un sacco di domande e non credeva che fossi italiana. La sera insistette per accompagnarci tutti alla frontiera e ci salutò da lontano. Ripensando a quell’episodio la sera avemmo tutti la sensazione che non fosse uno studente, ma un agente della Stasi, la Staatsicherheit, la principale organizzazione di sicurezza e spionaggio della Repubblica Democratica Tedesca allertato dalla presenza di un gruppo internazionale che non poteva passare inosservato».
Il lungo periodo di studi in Germania si conclude nell’agosto del 1963, giusto in tempo per ascoltare il discorso di Kennedy del 26 giugno. Il presidente americano che sarebbe stato assassinato nel novembre di quello stesso anno ripeteva dal palco “Ich bin ein Berliner, io sono un berlinese”. «Non avrebbe potuto esprimere meglio ciò che provavamo noi ragazzi di allora».
La berlinese di Monza. Quando ricorda quel primo Capodanno 1989, alla Porta di Brandeburgo, in una Berlino senza il muro Ursula Sommer si emoziona. «Ci siamo trovati alla frontiera, eravamo io, mia mamma, mio fratello e i parenti che erano rimasti nella parte orientale. Ci sono stati brindisi, lacrime e pura gioia. Abbiamo preso un martello e abbiamo tirato giù un pezzo di muro. L’ho ancora a casa».
Nata e cresciuta a Berlino fino ai vent’anni, Ursula Sommer ha visto quel muro nascere a 500 metri da casa sua: «Ero in vacanza nell’estate del 1961, mi ha chiamato mia mamma dicendomi di rientrare subito che stavano costruendo il muro dietro casa nostra. Vivevamo nel settore americano a casa di mia nonna, perché la nostra casa era stata occupata dai russi. Quando sono arrivata a casa c’erano i panzer americani da una parte e quelli sovietici dall’altra. Abbiamo temuto il peggio, c’era molta tensione».
Il muro è venuto su praticamente in una notte, poi è diventato sempre più alto, è stato messo il filo spinato e per anni non è stato possibile rivedere i cugini e gli zii che vivevano a Potsdam.
Nel 1962 Ursula Sommer lascia la Germania, prima per l’Inghilterra, poi arriva in Italia per amore. Dal 1971 vive a Monza dove è tra le cofondatrici del Club Benvenuto che riunisce donne di ogni nazionalità.
«Non ero a Berlino nel novembre del 1989, ma a Monza con i miei figli incollata alla televisione – ricorda – a guardare quelle immagini, con il pensiero a mia mamma e a mio fratello che stavano vivendo in prima persona quella giornata storica».
Quel 9 novembre 1989 segna la fine di tante peripezie per passare da una parte all’altra della città: «Per diversi anni non abbiamo potuto avere contatti con i nostri parenti nella parte orientale, poi abbiamo iniziato ad avere permessi, ma era una lunga trafila per avere il visto. Ricordo che costava 25 marchi e a mezzanotte bisognava rientrare». Da Berlino ovest Ursula viaggiava con banane, arance, jeans, perfino rotoli di carta igienica che nella parte orientale era di pessima qualità.
«Non si potevano portare libri e giornali – ricorda – c’era una lunga lista di oggetti proibiti. Una volta mi fecero aprire un panettone in dogana per controllare cosa contenesse».
La zia che era anziana ebbe la possibilità dopo qualche anno di rientrare nella parte occidentale, ma non i miei cugini che ritrovò solo in quel Capodanno del 1989, finalmente liberi. «Non pochi persero la testa e si lasciarono abbagliare dal mondo occidentale. Ancora oggi chi ha la mia età sente una differenza tra chi ha vissuto nella parte occidentale e chi sotto i sovietici, anche se sono stati investiti miliardi e l’area tra Berlino e Potsdam dove vivevano i miei parenti è ora una zona molto ricercata. È una differenza che chi ha la mia età avverte, ma che nelle nuove generazioni è del tutto svanita».