«La febbre, il ricovero, le macchine per farmi respirare: ora la mia prima notte senza tubi per il Covid»

Francesca Monti racconta il suo ricovero per Covid, le macchine per respirare, la prima notte senza tubi: ha 29 anni, è di Villasanta, volontaria della Croce bianca di Biassono. «Grazie ai medici di Vimercate»
Francesca Monti
Francesca Monti

Francesca Monti piange, spera e sogna da quasi tre settimane. Lotta contro il Covid in un letto dell’ospedale di Vimercate e quella tra giovedì 16 e venerdì 17 è stata la sua prima notte passata senza tubi. «È stata una sensazione strana – racconta – devo riabituare i miei polmoni a lavorare da soli ma dopo questo interminabile percorso sono fiduciosa, e soprattutto non ho intenzione di mollare».

Francesca ha 29 anni, è di Villasanta e lavora come operatore socio sanitario in una rsa di Monza. Da quattro anni è anche nel team dei volontari della croce Bianca di Biassono.

«Ho continuato a lavorare fino al 31 marzo ma già accusavo malessere generale. Pensavo fosse solo stanchezza per l’uso prolungato delle mascherine, del camice, gli occhiali e tutto il resto dei dispositivi di protezione che comunque sono arrivati in struttura dopo svariato tempo, e soprattutto per i turni infiniti per garantire comunque dignità agli ospiti presenti in struttura». Quella sera Francesca misura la febbre, poche linee, solo 37.5.

«Ho avvisato subito il mio medico di base. Il sospetto, ovviamente, era che fosse coronavirus. I giorni passano, la febbre resta, anzi inizia a non passare più nemmeno con la tachipirina. I dolori muscolari aumentano, i sapori e gli odori sono ormai un lontano ricordo, la tosse non mi dava pace, i battiti cardiaci sempre in aumento». Passano solo quattro giorni, Francesca non mangia e non beve più, non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto. «Chiamo il 112, mi portano in ospedale, ma poi vengo subito dimessa. Dopo 24 ore la situazione peggiora. La febbre sale a 39.7, i battiti quasi a 150, avevo le labbra incollate, non parlavo, non facevo niente, mi sentivo abbandonata. Ho chiamato di nuovo il 112. Mi fanno un lungo e dettagliato triage telefonico, sei interminabili minuti che mi costano una fatica incredibile ma dopo tre minuti dalla fine della telefonata sento le sirene dell’ambulanza. Erano i miei colleghi della Croce Bianca, ed è stato bellissimo rivederli».

Francesca viene ricoverata all’ospedale di Vimercate: reparto di terapia sub intensiva. «Dopo gli esami mi hanno detto che ero seriamente compromessa avevo contratto una polmonite bilaterale. Ho visto davvero la morte passarmi accanto». Venti ore in quel reparto, con il casco dell’ossigeno così stretto «che mi ha procurato piaghe sulla fronte e sulla testa».

«Ho pianto tanto, ci sono stati dei momenti in cui avrei voluto strapparmi tutto e mandare a quel paese la terapia. Ho pensato alla mia famiglia, agli amici, ai colleghi e a tutto il personale dell’ospedale che ce la sta mettendo tutta per salvare più vite possibili. Ho stretto i denti e ho iniziato a respirare come voleva la macchina, finché non mi hanno detto che dovevo stare più tempo possibile prona. È stato un nuovo incubo».

Accanto al letto di Francesca quello degli altri ricoverati, in lotta come lei contro lo stesso nemico. «Ho assistito alla telefonata di un medico alla famiglia del paziente ricoverato accanto a me. Diceva che l’uomo non rispondeva alla terapia, che stavano facendo di tutto per salvarlo. Ho sperato che quella telefonata non venisse mai fatta ai miei famigliari».

Passano i giorni. Arriva un nuovo casco il C-Pap, «un’altra macchina infernale. Chiudevo gli occhi, immaginavo di essere in viaggio su un aereo». Poi è stato il turno della sola mascherina per l’ossigeno e finalmente, l’altro giorno, più nulla. «In questo reparto ho trovato medici, infermieri e oss molto preparati, una equipe molto affiatata. Voglio ringraziare le dottoresse Cattaneo, Motta e Piluso: hanno un amore sconfinato per il lavoro che svolgono. Ho voluto condividere la mia esperienza per far capire davvero quanto possa essere subdolo e arrogante questo virus».