Monza – Non staremmo a frugare tra le lettere, appesi a una memoria curiosa, a un plico di fogli, pieghe di storia e di poche pagine di carteggio – tra il 1835 e il 1836. Non staremmo a ripercorrere con gli occhi la calligrafia del ventenne, per indovinare in quelle curve l’emozione e l’ansia di essere a Monza. Forse staremmo invece in piazza, sulla grande piazza in festa per il bicentenario, a ricordare quel giorno di novembre, o di inizio dicembre. Quel giorno che la musica di Giuseppe Verdi cominciò a riempire le navate del duomo.
Il 4 di giugno del 1834. Il duomo di Monza pubblica un bando per un nuovo maestro di cappella e di canto che sia insieme organista. L’incarico vale 2.200 lire milanesi. Tra quelle che giungono in risposta al concorso, c’è la lettera di Giuseppe Verdi: «Supplicando ad ammetterlo », «dichiarando e promettendo che egli adempirà con ogni premura, e col più indefesso zelo al suo dovere». Così che, «ne resti pienamente soddisfatta, né mai abbia il minimo motivo di dolersi della scelta».
L’incarico è assegnato, e a Monza si mettono in attesa del nuovo maestro di Cappella. Ma Verdi non arriva. Non arriva e sono già passati alcuni mesi. Non arriva: occorre sollecitare il maestro Vincenzo Lavigna. Che a sua volta scrive a Busseto, domandando spiegazioni. Da Busseto, le riceve con data 15 dicembre 1835. Verdi attacca con una angosciata citazione dantesca. «Nuovi tormenti e nuovi tormentati. Quand’io mi credeva al punto di sortire da tante mie contrarietà e procurarmi un pane onorato, e comodo, mi trovo di bel nuovo precipitato in un fondo, ove non vedo che bujo».
Attacca così, il giovane musicista che si ritrova protagonista involontario e causa di un parapiglia in patria (ora tutte le lettere sono pubblicate nel nuovo epistolario integrale dei Millenni Einaudi, 2012, Torino, 1202 pp, 90 euro). «Saputasi in Busseto la mia partenza, nacque un sussurro da non immaginarsi», spiega con l’agitata innocenza dei suoi vent’anni. Lo sdegno dei Filarmonici, le «ingiuriose parole », persino le minacce non basterebbero a trattenerlo dal lasciare Busseto; non fosse che lo scrupolo verso il suo benefattore Barezzi: «Non avesse avuto a soffrire per me l’odio quasi che generale del paese, io sarei partito subito». All’inizio del marzo successivo, Verdi vince il concorso di maestro di musica di Busseto. Ma non ha dimenticato Monza. In una lettera del gennaio del 1836 aveva raccontato il pasticcio della nomina (e «le liti fortissime ») che avevano accompagnato la nomina di «un estraneo di poca abilità» a maestro di cappella del suo paese. Non ha dimenticato Monza.
E difatti a ottobre, «stanco di stare a Busseto», scrive a Pietro Massimi a Milano per domandare se quel posto è ancora disponibile. «Tu vedi che io passo la mia più bella gioventù nel niente. Io per questo attenderei di nuovo alla Cappella di Monza, (benché per genio non sia inclinato alla musica di Chiesa)». Spera, il giovane Verdi. «Parmi che colà starei meglio». Spera invano. Verdi non arriva, e solo due giorni prima la Fabbriceria si è risolto a nominare un nuovo maestro di cappella.
«Se ella farà conoscere queste cause ai signori Monzesi, questi medesimi non si disgusteranno di lei, e sapranno conoscere che ragionevole è (sebbene dispiacevole) la mancanza di Verdi», scrive don Pietro Seletti, istitutore di Verdi, a un altro maestro, Vincenzo Lavigna. È l’epilogo amaro, del breve tratto in cui la storia del compositore si è intrecciata al nome di Monza. Ma indugiando un momento sulla piazza in festa, è lecito pure – come fece Giuseppe Riva all’alba del Novecento – immaginarsi come sarebbe stato, vedere Verdi solcare la soglia del Duomo. Fingersi stretti nella ressa che allunga il collo per assistere all’ingresso. «Oh! Quale ammirazione, entusiasmo e delirio forse, se un giorno del novembre o del dicembre 1835, la folla stipata sotto gli archi della basilica di Monza avesse visto l’immortale giovinetto ascendere, pensoso e grave, la loggia istoriata dell’organo maggiore». E poi cominciare a suonare. «E sentito quindi diffondersi per l’ampie navate il fascino, ch’egli solo sapeva d’armonie sovrane!».
Letizia Rossi