Caso Serravalle, l’architetto Sarnochiama in causa Massimo D’Alema

«Ho dovuto comprare le azioni Serravalle perchè costretto da D'Alema». Così secondo l'architetto Renato Sarno, gli avrebbe detto Filippo Penati - che smentisce - a proposito dell'acquisto da Gavio a prezzo elevato delle azioni di Milano-Serravalle.
Caso Serravalle, l’architetto Sarnochiama in causa Massimo D’Alema

Monza – Sull’affare Serravalle che vede l’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati alla sbarra, spunta il nome di Massimo D’Alema. L’ha pronunciato Renato Sarno, l’architetto considerato dai pm di Monza «il collettore delle tangenti e uomo di fiducia di Penati nella gestione di Milano-Serravalle».

Sarno, a proposito dell’elevato prezzo al quale la Provincia acquistò nel 2005 azioni della Serravalle, ha riferito ai magistrati le parole secondo lui pronunciate da Penati: «ho dovuto comprare le azioni di Gavio. Non pensavo di spendere una cifra così consistente, ma non potevo sottrarmi perché l’acquisto mi venne imposto dai vertici del partito nella persona di Massimo D’Alema».

Secondo Sarno, dunque, Penati avrebbe indicato nell’allora presidente Ds e poi premier e ministro degli Esteri, il soggetto che politicamente lo aveva spinto ad acquistare le azioni da Gavio, il 15 percento, a 8,9 euro ognuna, quando lo stesso Gavio le aveva acquisite per 2,9 euro.

Gavio dall’opreazione incassò 238 milioni proprio in coincidenza con l’appoggio finanziario da 50 milioni fornito poi dallo stesso Gavio alla «scalata» che la compagnia assicurativa Unipol stava dando alla Bnl prima di essere fermata per aggiotaggio.

Penati, però, interpellato dal Corriere della Sera, smentisce Sarno: «Costretto da D’Alema? Non è vero, non c’era ragione perché ne parlassi con lui: difendo l’operazione Serravalle fatta nell’interesse della Provincia e destinata ancora oggi a procurarle una plusvalenza.»
In data 10 dicembre 2015 l’architetto Sarno, coinvolto nel processo oggetto del presente articolo, è stato assolto da qualsiasi imputazione in quanto il fatto non sussiste, come recita la sentenza emessa dal tribunale di Monza.