C’era una volta un drago. Di quelli veri, leggendari proprio perché veri, le squame, la pelle verde, le ali, zampacce e codaccia, denti affilati. Lo chiamavano Tarantasio. Viveva un po’ più in là del fiume Adda, dice la leggenda, in un lago altrettanto leggendario che le storie ricordano come esistito e la Storia racconta come forse reale nella preistoria, e non quando i fatti di cui Tarantasio è protagonista vorrebbero.
SCOPRI Dov’era il Lago Gerundo: la mappa
Il lago Gerundo, messo lì subito dopo l’Adda, prima del Serio, poco più in là della provincia di Monza: da Vaprio in giù, fino a Lodi, il lago lombardo perduto. Come fosse una favola nordica o un racconto scozzese, il drago Tarantasio funestava l’esistenza di chi ci viveva: fiatava vapori pestilenziali, sulfurei, che qualcuno riporta al metano forse presente nel sottosuolo, divorava bambini, si rintanava nell’isola Fulcheria, la fantastica isola “pulcherrima”, bellissima, l’unica zona verde in un paesaggio arido.
Sono le coordinate di una storia che riporta le leggende di un lago scomparso e forse esistito in un tempo troppo lontano tra Bergamo, Monza, Lodi, ma che portano diritti verso le favole che siamo abituati a trovare alla tavola arturiana o nell’immaginazione dei confini più settentrionali dell’Europa. Eppure è qui, a un passo da casa, dove sempre leggendarie sono le origini di una signoria che ha dato tanto anche alla città di Monza. A ricostruirle è stato Fabio Conti, che alla fine dello scorso anno ha dato alle stampe “Lago Gerundo – tra storia e leggenda” per riportare alla luce una delle storie più belle che questo pezzo di Lombardia sia stato capace di raccontare.
Lasciamo stare che il drago Tarantasio stia stato l’ispirazione anche del simbolo dell’Eni – “uno cane, con sei zampe?” diceva la pubblicità di pochi anni fa – ideato da Luigi Broggini. Quel mostro che terrorizzava le popolazioni del lodigiano sarebbe stato anche la vittima sacrificale di un cavaliere, passato poi per il capostipite della dinastia Visconti, che per molti secoli avrebbero condizionato la vita di Monza: bastano Azzone Visconti e la via lungo il Lambro che ne porta il nome (perché per anni è stato condannato al carcere nel castello di Monza, i forni), basta quell’Estore di Monza di cui il Museo del duomo conserva la mummia, l’unico ad avere battuto una moneta monzese, bastano i segni postumi, come il drago con il bambino in bocca di epoca neogotica, lo scavallo del Novecento, al parco di Monza, dalle parti della torretta ai giardini reali.
Il simbolo dei Visconti è il drago Tarantasio che mangia un bambino, perché il primigenio della dinastia è il cavaliere che – secondo la leggenda – avrebbe liberato le popolazioni lombarde dal drago uccidendolo e mettendo fine ai suoi pasti di bambini della zona.«Il biscione dei Visconti è davvero Tarantasio? Secondo alcuni sì, appunto perché il capostipite, secondo la leggenda, avrebbe ucciso il mostro del lago Gerundo nel XII secolo – scrive Conti – . Con l’ascesa al potere dei Visconti il biscione divenne poi il simbolo della città di Milano e del Ducato. Leggende a parte, i Visconti devono aver preso da qualche parte il simbolo del biscione che mangia un bambino. Da dove? Impossibile dare una risposta certa a questo interrogativo» ma l’uccisione del drago Tarantasio per mano di Uberto Visconti rimane suggestiva. E come si dice di là dalle Alpi (che di leggende arturiane ne sanno parecchio) c’est pas vrai, mais bien trouvé, non è vero ma ben trovato. La sua leggenda ha talmente permeato il territorio che nella chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore esiste anche la pretesa costola del drago. Per qualcuno si è trattato di un bizzarro superstite dei dinosauri passato di bocca in bocca tra le popolazioni dell’area.
«Tarantasio è dunque un mostro leggendario completamente inventato, oppure un residuato dei dinosauri? Va detto che la tradizione locale della zona del Gerundo non ha mai fatto riferimento a un mostro, né a un dragone – scrive ancora l’autore – . Per i lombardi Tarantasio era ed è semplicemente la “biscia”, in dialetto milanese la “bissa”: termine che deriva da “serpente”, da “serpe”, parola da sempre considerata un tabù linguistico, vista l’assonanza con “bestia”. “Serpente” viene infatti dal latino “serpere”, da cui “serpens”, “strisciante”. Un aggettivo, dunque, che ha dato il nome a questo animale, noto sin dall’antichità e strettamente legato alla storia dell’uomo da sempre: basti pensare alla Bibbia, con Eva che viene tentata dal serpente. Nella tradizione dell’uomo, e un po’ in tutte le culture, il serpente rappresenta il Male: San Michele Arcangelo viene raffigurato nell’iconografia sacra mentre uccide il serpente».
E ancora: « Ma Tarantasio era un serpente, un drago o un mostro con qualche altra fattezza? Probabilmente la leggenda e la tradizione orale hanno mescolato le sue caratteristiche, trasmettendo fino a noi una figura leggendaria non facilmente relegabile ai canoni del mondo animale né di quello fantastico, proprio come avviene per le figure leggendarie». Che è la cosa più bella da credere: un pizzico di Loch Ness alle porte della Brianza. Con cavalieri, draghi, per chi vuole una principessa da inventare (e da salvare). Per inventarsi una dinastia, i Visconti, che avrebbe deciso il futuro anche di questa città.