“Lacci” è l’elettrica rappresentazione di una grandiosa distopia privata. La profondità del suo respiro narrativo, la fulmineità della sua visione scenica, l’energia muscolare dei suoi interpreti. Tutto incordato allo stato dell’arte, tutto in favore di uno spettacolo senza estetismi, ma perennemente estatico nel risemantizzare un romanzo contemporaneo (l’omonimo lavoro di Domenico Starnone) in un intrattenimento visuale ingegnoso e controverso, diviso in tre sezioni e innervato da un’unica, prorompente vitalità espressiva. L’intelligenza performativa dello spettacolo provoca risultati eccellenti, sempre tesi a inquadrare sia le spigolosità di una letteratura particolare sia le tempeste psicologiche dei protagonisti attraverso una resa teatrale chirurgica ed emozionata.
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Ne è un esempio abbagliante il monologo d’apertura di Vanessa Scalera, soluzione formale che – grazie alla morfologia confessionale del detto e del non detto – sviscera la complessità della risposta femminile a una tragedia tipicamente medio borghese. La scelta è frontale, comunicativa di una femminilità complessa, un esempio all’attivo della migliore economia dei mezzi dove corpo, voce, tono e postura fungono da impianto scenografico per dare slancio alla verità materna e femminile della abbandonata Vanda, donna che si è legata ai doveri domestici istituzionali per sopravvivere ai ruggiti della sua gelosia “struccata” e vivere nella sua nuova realtà avvelenata.
Poi si prende fiato e attraverso uno scarto temporale supersonico i cervelli invecchiano, le stanze ruotano e la versione di Vanda si digerisce: non tanto come l’illustrazione di una resiliente eroina domestica, quanto di una persona fatta a pezzi che perdona ma non dimentica, che ricostruisce ma senza più gioia. La sua aggressività passiva serpeggia in filigrana anche nella parte centrale, dominata da Orlando, che è costruita per la necessità di una seconda versione alla storia. Maschile, questa volta, apparentemente colpevole e invece illuminante, perché affaticata e protesa a denunciare una personale confusione, un mancamento etico dovuto alla nascita di un innamoramento incontenibile e quindi un’ammissione di colpa. Dal confronto di esperienze emerge il dilemma del particolarismo morale – chi è la vittima? chi il colpevole? chi ha mentito? – ma lo spettacolo schiva sia la sterilità della ricerca di una soluzione che l’instabilità di una risposta di parte e con un ultimo colpo di teatro – che fonde tragedia intima e universale, vertigine e caduta delle certezze – svela il Velo di Maya. Le vittime delle azioni dei genitori sono i figli e la prova è la loro trasformazione in carnefici. Il flashback finale rivela le loro personalità antipatiche, i loro scompensi psicologici, le ansie e le involuzioni, l’affetto nascosto e la loro colpevolezza nell’effrazione all’appartamento dei genitori. Ma è lungi dal condannarli, anzi: rappresenta il fuoco che si rivolta contro il focolare, un parricidio tirato per gioco e per ripicca. Non c’è niente di più complesso e forte nello spettacolo del suo ultimo frame, in cui il personaggio di Pier Giorgio Bellocchio dando le spalle al pubblico osserva la libreria a parete. Non vedremo mai la sua faccia, viandante nella nebbia della rabbia: Lacci in un attimo ha dipinto il suo mare interiore, offrendo uno sguardo grandangolare su come la famiglia sia il punto di sutura che tiene fermo tutto. Sopra le molteplici voragini.
Lacci
Regia di Armando Pugliese
con Silvio Orlando, Pier Giorgio Bellocchio, Roberto Nobile, Maria Laura Rondanini, Vanessa Scalera e Matteo Lucchini