“Schifo” secondo #Stranoteatro

#Stranoteatro al Binario 7 di Monza per “Schifo”, progetto di Enrico Roveris sul testo del drammaturgo austriaco Robert Schneider.
Enrico Roveris
Enrico Roveris

Ci si potrebbe anche innervosire di fronte a “Schifo” e alle sue scelte comunicative. Non per l’assenza di organicità narrativa e nemmeno per l’occasionale mancanza di equilibrio – qualità neanche troppo necessarie a un teatro che funziona soprattutto per strappi sperimentali – quanto piuttosto per la presenza ingombrante di svariate trappole emotive, le serve funzionali del ricatto psicologico: lo spettacolo condotto in toto da Enrico Roveris ha tante cose da recriminare e è infatti furbissimo nel farlo, soprattutto quando prende gli spettatori in contropiede, facendoli assistere docili non al monologo sofferto di un uomo sopravvissuto a torture e sevizie ma a un contro-canto sotterraneo che critica la xenofobia.


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Il racconto dell’inaffidabile Sad è disseminato di mine esplosive e lo spettacolo per gli spettatori non è altro che l’inerme visione al rallentatore dell’eruttiva detonazione dei propri preconcetti in materia. Si capisce quando le luci si riaccendono, l’attore si inchina e tutto il pubblico si trova a sanguinare da ferite comparse a sorpresa. Sono le coltellate menzognere del palcoscenico, ancora affilate dal 1993, data di rappresentazione in cui Dreck (testo da cui “Schifo” è tratto) era stato pensato da Robert Schneider per sverniciare la società tedesca e la sua ipocrisia virulenta.

Poi però interviene la verità del corpo, che sbriciola la critica delle “modalità teatrali” e legittima gli inganni tesi per ingabbiare lo spettatore nella scatola nera che condanna perbenismo e compagnia cantante. La scena, questa volta senza inganni, vive del corpo di Roveris: vero nella sua immedesimazione finzionale, scioccante a tratti per la amarezza verbale, per la masticazione grammaticale, le parole rigirate in bocca, i sussurri speziati. Il suo corpo è rifiuto e refuso di popoli e culture ed è il misto ideale di un fondamentalista della retorica, di un sofista con l’alitosi e un topo terrorizzato. Il suo corpo è verità e questo è già tantissimo, perché anche questo è teatro che commuove e che molesta, infilandosi sotto le unghie attraverso un discorso che ha la forma delle grandiose guerriglie urbane, qui espulse da immagini e simboli forti, figure fonetiche e simbologie che si mescolano e si riversano l’una sull’altra.

Il monologo non è sempre al suo meglio e a volte inciampa nel continuo doppiogioco strumentalizzato per far emergere determinate epifanie, ma quasi sempre è efficace, diretto e sporco, e scava nel fango per trovare considerazioni di bellezza. È più riuscito quando descrive la quotidianità della solitudine e meno nelle invettive: perché la brutalità del componimento orale si addice più al racconto personale e alla mitologia intima di un viaggiatore bugiardo che al racconto metropolitano sull’accettazione, danneggiato invece da un impianto drammaturgico soggettivo che fatica a raccontare con obiettività la vertiginosità del problema sociale. Superba la prima mezz’ora, che stende anche i più scettici: è la testimonianza di un fantasma piovuto sul palco, di un animale raro e triste che parla un’altra lingua e somatizza un dolore incomprensibile.

Schifo
Progetto, interpretazione e regia di Enrico Roveris