Non erano nemmeno le otto del mattino. Lei aveva già attraversato un pezzo di Brianza per essere a scuola puntuale. Anzi: quando la vicepreside ha bussato alla porta della sua classe prima di tutto si è chiesta “perché mai” la sua lezione dovesse essere interrotta. Perché la formazione terroristica Prima Linea aveva ucciso il marito, avrebbe scoperto di lì a poco.
«Un fatto così non ti cambia la vita: ti cambia la personalità» racconta Anna Laura Horloch a quarant’anni di distanza, tanti ne sono passati da quella mattina del 5 febbrario 1980. Lei già all’istituto Vanoni di Vimercate dove insegnava diritto, il marito Paolo Paoletti che aveva accompagnato il figlio da una vicina prima della scuola, per partire verso l’Icmesa. Ecco: l’Icmesa, l’incidente della diossina, quattro anni prima. Prima Linea cercava bersagli e aveva scelto lui, direttore dello stabilimento di Seveso, che stava lavorando alle bonifiche. Ma nella testa dei terroristi era il simbolo del disastro. Lui aveva 39 anni, lei 37, il figlio 8. Niente sarebbe stato più come prima da quel giorno.
L’omicidio non ha cancellato la decina di anni vissuti a Monza, in via De Leyva. «Probabilmente è una Monza ormai dimenticata – racconta Anna Laura Horloch dalla sua Firenze – Non saprei: manco da tanto tempo. Una cittadina gradevole, nella quale mi ero trovata molto bene. Con persone amiche, disponibili, soprattutto d’aiuto con un bambino piccolo. A partire dalla signora Antonietti, che ci aveva accolti, la nostra padrona di casa. Per noi era stata subito una persona importante, molto affettuosa. Di per sé io conservo un bel ricordo di Monza. Poi gli eventi sono stati quel che sono stati».
Un ricordo bello di Monza e anche di quella scuola in cui era sbarcata per continuare a fare l’insegnante di scuola superiore, di fronte a ragazzi che – avrebbe scoperto poi – non erano di molto più giovani di quelli che riempivano le strade di sangue in quegli anni.
«Però al Vanoni non si avvertiva la violenza, non direi: certo c’erano delle tensioni, erano pur sempre gli anni della contestazione, però all’interno di quella scuola in particolare mi sento di dire che non si sentiva la violenza. E poi erano anni particolari: c’era l’Ibm, con un forte radicamento sul territorio, e i nostri studenti erano naturalmente indirizzati lì, molti sono riusciti a trovare un lavoro presto in quella azienda. Forse anche per questo la scuola la ricordo come molto coesa. Come un luogo di lavoro in cui trovarsi bene: c’era tanto lavoro di squadra molto attento anche rispetto al futuro dei ragazzi. E così con le colleghe: mi aveva accolto molto bene».
Tutto si è rotto poco dopo le otto del mattino del 5 febbraio di quarant’anni fa. «Quella mattina sono venuti i carabinieri. La vicepreside li ha accompagnati fino alla mia classe e mi ha chiamata. Ricordo che quando è arrivata io mi sono chiesta lì per lì “perché mai viene a interrompere la mia lezione a quest’ora?”. Poi le forze dell’ordine mi hanno chiesto di seguirle e l’ho fatto. Non mi hanno detto subito cosa fosse successo, mi hanno parlato di un fatto grave. Quello che era accaduto davvero me l’hanno detto poi, quando eravamo in auto, nel tragitto verso casa».
Quattro decenni dopo, riavvolgendo i ricordi, dice che no, non aveva mai pensato che sarebbe potuto accadere. Nei primi anni Novanta aveva detto al Corriere che il marito a volte ci scherzava: «Quando esco di casa devo guardare davanti e dietro», ma non sembrava una preoccupazione vera. O forse faceva in modo che non lo sembrasse. Era capace di tenere lontana la paura dalla casa.
«Non ho mai pensato che sarebbe potuto accadere. Ma di certo mi ha cambiato la vita. Anzi: quello che è successo è molto di più, un fatto del genere modifica i rapporti con le persone, con tutti quelli che conosci, non è più la stessa cosa. Come se cambiassi all’improvviso la personalità. Ecco: un cambio di personalità, niente è più come era stato prima. Sono diversi gli altri, sei diversa tu. Anche nel rapporto con mio figlio», al quale avrebbe dovuto spiegare non solo che il padre non c’era più, all’improvviso, lo stesso che lo aveva salutato al mattino, ma che non c’era più per qualcosa di incomprensibile – se non nella testa del commando.
«Non è stato facile con lui. Era nato a Milano dove abbiamo vissuto tre anni. Poi a Monza ha frequentato l’asilo delle Canossiane e quindi lo abbiamo iscritto alla elementare Raiberti, era proprio vicino a casa, nella strada parallela.
«Da noi si dice che del senno di poi sono piene le fosse. E quindi io non posso sapere come sarebbe stato se non fosse successo quello che è accaduto, però sì: è stato difficile. Non saprei, forse anche alcune mie scelte sono state sbagliate, come farmi carico di entrambi i ruoli che la perdita del padre sentivo mi aveva assegnato. Non so davvero. Forse mi sono fatta carico di troppe responsabilità».
Ma una certezza l’ha avuta subito, Anna Laura Horloch: lasciare Monza, tornare in Toscana, dove erano nati lei, il marito Paolo Paoletti, dove c’erano le famiglie. «Una decisione immediata, quella di partire. Soprattutto per mio figlio» e non solo o prevalentemente per allontanarlo da quella città: «Ho pensato subito che avrebbe avuto bisogno di un po’ di famiglia, quella che io non ero più in grado di dargli a Monza. Perché lì, la nostra famiglia, l’avevano dimezzata. Ho voluto portarlo a Firenze: la mia città. Dove c’erano i miei nonni, mia madre, mia sorella, che c’è ancora. A Monza la famiglia non c’era più, lì l’avrebbe avuta. A settembre di quello stesso anno eravamo già là». Dove poi lei è tornata a insegnare e il figlio ha studiato medicina.
«Se ne abbiamo parlato? Entrambi abbiamo preferito mettere un velo. Abbiamo, ho preferito tenere dentro il dolore di quei fatti. Ho seguito gli arresti, i processi, li ho affrontati con dolore. A volte credo anche di avere evitato di leggerne. Comunque ho scelto Firenze anche per cercare di mettere distanza tra noi e quanto era accaduto», rifiutando anche i funerali pubblici che il sindaco di allora, Emanuele Cirillo, le aveva offerto: «Forse non avevo pienamente la percezione di quello che sarebbe successo. Allora pensavo che un fatto come la morte fosse del tutto privato, che non avesse bisogno di avere un carattere pubblico. Ora non sono più così sicura che non sarebbe stato giusto il contrario: ma era quello che avvertivo. A posteriori forse sarebbe stato giusto che quella morte fosse riconosciuta pubblicamente. Allora ho preferito che appartenesse solamente alla sfera privata».
Una persona radiosa con interessi culturali forti, che amava la quotidianità e coltivava le sue passioni. «Affettuoso con nostro figlio e con me» dice Anna Laura Horloch parlando del marito: «Il perdono? No. Ma non lo dico con violenza, con senso di vendetta. Non è quello che mi interessa. Però il perdono lo lascio a chi ha questa possibilità. Io non posso dire altro che di avere preso atto delle circostanze. Il perdono appartiene a un’altra sfera, quella civile, o religiosa».