È stato il ventennio che ha cambiato la faccia della Brianza, che da terra di santi e imprenditori, si ritrovò provvista in abbondanza di un’altra categoria: i mafiosi. E se nel 2010 l’operazione Infinito “svegliò” le coscienze, è proprio in quel ventennio, fra gli anni Settanta e Ottanta, che si piantarono le radici di una convivenza destinata a durare.
Allora furono pochi ad accorgersi che la malavita aveva cambiato volto: «I mafiosi che erano in soggiorno obbligato – spiega un uomo dell’Arma, che mantiene l’anonimato e che lavorò fra Monza, Desio e Seregno negli anni della svolta – non commettevano crimini qui. Ma qualcosa stava cambiando perché da quel momento i reati cui eravamo abituati mutarono completamente. Da reati personali si passò a una dimensione associativa».
Da rapinatori a rapitori, il passo fu breve. E a farlo fu un altro tipo di delinquenza. Prima quella di Cosa nostra, che però lasciò perdere presto per dedicarsi a traffici più redditizi come gli stupefacenti e poi la ’Ndrangheta calabrese. Il “contagio”, come l’ha definito Giuseppe Pignatone, iniziò qui. Dalla migrazione per lavoro all’infiltrazione. In piccoli Comuni, non nelle metropoli. In realtà urbane che non superavano – come voleva del resto la legge del ’65 sul soggiorno obbligato – i 5mila abitanti. E dove i Comuni – il paradosso – erano spesso tenuti a rifornirli di tutto: «Risultando nullatenenti – racconta l’ex militare – le amministrazioni dovevano trovargli alloggio e a rifornirli di buoni pasto. Un soggiornato, ai miei tempi, fu fatto dormire in una scuola».
I nomi sono di peso. Qui non arriva solo la manovalanza, quella che poi compie materialmente i reati. Ci arrivano i capi. Il più noto è Gaetano Badalamenti, boss di Cinisi protagonista della “Pizza connection”. Macherio è il paese che lo ospita per il soggiorno obbligato, ma – come testimoniano i documenti della commissione parlamentare antimafia raccolti nell’archivio Pio La Torre, ciò non impedisce al boss di avere contatti con personaggi come Gerlando Alberti detto “U’ paccaré”, frequentato liberamente da don Tano a Cologno Monzese. Nel ’71 Badalamenti è protagonista dell’elezione del “presidente della commissione” – il capo – in una riunione tenutasi a Milano e «durante il soggiorno a Macherio – si legge ancora – ad incontrarsi con mafiosi siciliani residenti a Milano, coi quali organizzava operazioni di contrabbando, avvalendosi principalmente di Gerlando Alberti e dei fratelli Alfredo e Giuseppe Bono, nonché di Sciarrabba Giusto, Crimi Leonardo, D’Anna Gerolamo e Brusca Giovan Battista».
Per un allontanamento abusivo da Macherio, Badalamenti apparve davanti all’allora pretore di Monza dove fu condannato a un mese e dieci giorni di reclusione.
Ma non fu l’unico boss in Brianza e nemmeno della stessa organizzazione. Da Desio passerà, ufficiosamente, Epaminonda e qui si consumerà anche uno dei primi regolamenti di conti fra vecchi e nuovi padroni: «Trovammo cinque cadaveri, fu un messaggio per far capire chi comandava da quel momento in poi» spiega il militare. Prima che si parli di ’Ndrangheta – risale al 1988 il soggiorno di Natale Iamonte, capobastone del clan di Melito Porto Salvo, a Desio – devono passare più di dieci anni. «Si faceva attenzione ai mafiosi in soggiorno obbligato – ribadisce – ma sfuggiva l’arrivo pervasivo della mafia calabrese. Non c’era la percezione da parte della società civile di questo fenomeno e tardò ad esserci anche quando iniziarono i sequestri. Siccome non colpivano tutti indiscriminatamente, questo contribuì a ridurre l’impatto del fenomeno». Così, mentre le rapine (ben 174 nella città di Desio nel solo anno 1975) destabilizzavano i brianzoli, la malavita poteva mettere radici e confermare il proprio controllo.
«Sembra assurdo, ma non avevamo i mezzi per farlo. Le intercettazioni, a quel tempo, erano rudimentali – prosegue – a volte dovevamo correre da una parte all’altra per seguire gli intercettati. La maggior parte del lavoro era di tipo investigativo». Come la conoscenza del territorio, sapere ad esempio dove andavano a divertirsi i boss nostrani, che Renato Vallanzasca era spesso ospite di un locale di Nova Milanese.
«C’era lui, ma anche Antonio Colia e Rossano Cochis» racconta. I “vecchi metodi” furono determinanti per risolvere alcuni casi di rapimento. Come quello di un imprenditore 80enne di Stradella, in provincia di Pavia: «Lo trovammo a Gaggino Faloppio, in una stanza di tre metri per tre». O per risalire ad alcuni dei responsabili dei sequestri brianzoli: «C’è un caso in cui fu il colpo d’occhio a fare tutto. Una 127 beige che, scoprimmo dopo, era guidata da uno dei rapitori. Un’altra volta fu un appuntato ad accorgersi di una 500 rossa, in una via di Cesano. Trovò strano che non si fosse mai vista. Fu un’intuizione importante». La stagione dei rapimenti fu lunga e in alcuni casi triste. Il primo rapito in Brianza fu Fazio Longhi, anno 1973, e cinque anni dopo fu la volta di Paolo Giorgetti. Aveva 16 anni e il suo corpo fu trovato carbonizzato in un’auto abbandonata a Cesate. L’82 è l’anno di Pierantonio Colombo di Giussano, quello dopo di Isabella Schiatti Trabattoni di Seregno. Sempre nell’83 tocca a Giovanni Cesana di Seregno e infine a Ambrogio Elli, titolare della Feg di Giussano.
«Poi è arrivata la droga – conclude l’ex militare – e tutto è cambiato ancora. Ma sono cambiati anche i nostri mezzi. Se li avessimo avuti allora, forse l’esito sarebbe stato diverso».