«La Brianza è un territorio particolare che merita altrettanta attenzione, non tanto da forze dell’ordine e magistratura, che già lo fanno, ma piuttosto da istituzioni, politica, ordini professionali. Ci vuole molta più applicazione perché è evidente che è stata presa di mira dalla criminalità organizzata».
Ma la Brianza subisce la ’ndrangheta o ne ha “bisogno”? È il quesito che rimbalza dopo l’ennesima operazione dei carabinieri, “Freccia”, che ha scoperchiato gli affari loschi di una famiglia “nota”, che da anni, a fasi alterne, controlla il territorio. Il Cittadino lo ha chiesto a Monica Forte, consigliere regionale e presidente della Commissione antimafia della Regione.
«Qui – dice Forte – c’è un problema di cambio di paradigma e di tessuto culturale: un tempo si poteva parlare del fatto che in Lombardia e in Brianza si subiva la pressione della ’ndrangheta mentre oggi parliamo di soggetti appartenenti alla economia legale, imprenditori, commercianti che vanno alla ricerca dei servizi delle mafie e non si fanno alcuno scrupolo a cercarle per recupero crediti, protezione nei locali notturni, superamento delle controversie tra concorrenti. Si tratta di una quota di tessuto economico legale che, conoscendo la reputazione di queste famiglie e cosche mafiose sul proprio territorio, decide scientemente di chiedere loro una serie di servizi. Un aspetto rilevato anche dall’operazione Freccia dopo che è emerso negli ultimi anni in altre indagini».
Come è potuto avvenire?
«Si è trattato di un “innesto culturale”: forse si è sottovalutato che quando la ‘ndrangheta ha cominciato a trasferire e replicare le proprie “locali” al di fuori delle regioni di nascita, non ha semplicemente portato altrove, in questo caso in Lombardia e in Brianza, i propri affari, ma si è duplicata innestando il proprio codice culturale al Nord. Ciò ha fatto sì che all’interno del tessuto delle società, che ha a che fare con i difetti e le debolezze umane, questo modo diverso di concepire il modo di lavorare e di risolvere i propri problemi economici ha attecchito su una parte del tessuto economico lombardo che ormai oggi usa chiamare il Cristello di turno per dire “ho bisogno di questo, mi dai una mano?”».
Ma si tratta di una scelta consapevole, secondo lei?
«È probabile che questi soggetti che chiedono aiuto ai mafiosi non siano perfettamente consapevoli delle conseguenze di questa richiesta, del fatto che abbiano superato una linea di non ritorno. E qui si sconta probabilmente la mancanza di una conoscenza approfondita del fenomeno e delle dinamiche di approccio mafioso per capire bene quali siano gli obiettivi finali».
E quali sarebbero?
«Prendiamo ad esempio l’usura: l’obiettivo delle mafie non è avere i soldi indietro, fosse anche con interessi altissimi, perché è notorio che alla criminalità non manchino i denari: l’unico obiettivo che hanno è “mangiarsi” le imprese sane, a loro non importa nulla che un imprenditore o un commerciante restituisca il denaro prestato, ma di riciclare tutti i soldi illegali che hanno e che non sanno dove mettere: sono disposti a farlo anche perdendone la metà pur di averne l’altra “pulita”. In epoca “post Covid”, dopo il lungo periodo di chiusura, questo problema delle aziende e dei commercianti in difficoltà per crisi di liquidità e del ricorso alle mafie per farsi prestare denaro a tassi usurari sta esplodendo, anche a fronte della difficoltà di ottenere credito dalla banche, e in questo anche la burocrazia non ci aiuta: non siamo stati capaci di mettere in campo degli strumenti molto più veloci di erogazione senza per questo derogare i controlli».
Come è possibile evitare queste derive?
«C’è il problema che noi cittadini, associazioni di categoria, ordini professionali, imprenditori e commercianti continuiamo a pensare che il contrasto alle mafie sia un dovere da delegare a forze dell’ordine e magistratura: ognuno critica gli altri ma non fa il proprio compito. Non può essere così. Io mi domando: ma quando il Cristello di turno andava dai paninari a imporgli il posto, o quando imponeva le imprese di sicurezza ai locali, nessuno si è accorto di nulla?».
Perché non si denuncia?
«Per tre motivi: uno perché si ritiene che non si abbia la responsabilità di farlo, non si è capito che siamo tutti chiamati prima di tutto a una responsabilità soggettiva e poi, in seconda battuta, collettiva. Due perché si ha paura, aspetto comprensibile e umano ma qui entra in campo la responsabilità delle istituzioni che dovrebbero essere molto più vicine e più apertamente al fianco dei cittadini e dei piccoli imprenditori, capendo ad esempio quanto sia importante costituirsi parte civile nei processi per mafia da parte di una amministrazione pubblica o formare e informare i propri cittadini. Tre, perché è più facile, dal momento che sanno che quel soggetto mafioso mi gestisce ad esempio la sicurezza del locale se ne guardano bene dal fare qualsiasi sgarro. Quando in un territorio piccolo, come ad esempio Seregno, hai da almeno oltre dieci anni la presenza mafiosa, i cittadini e le amministrazioni comunali che si sono succedute ormai lo sanno che i Cristello sono quelli, sono riconoscibili, si sa cosa fanno, quindi probabilmente spesso ci si gira dall’altra parte, si fa finta di non vedere, oppure si utilizzano i loro servizi perché fa comodo farlo».
Si è fatto troppo poco per affrontare il problema mafie?
«No, anzi, abbiamo fatti grossi passi avanti nel nostro territorio in termini di conoscenza e consapevolezza del fenomeno mafioso e di strumenti messi in campo, tuttavia continua a mancare una conoscenza approfondita delle dinamiche e degli obiettivi, si continuano ad avere immagini distorte. Vedi il mafioso con la coppola, che qui non c’è, come non assistiamo a sparatorie e quindi la mafia qui non esiste. Oppure c’è solo la mafia che mastica finanza, quella dei colletti bianchi. Invece utilizza di volta in volta gli strumenti che ritiene più opportuni per lo scopo: la violenza se serve, oppure gli affari e trova ovunque professionisti disponibili, si appropria della economia legale, spesso gestendo dietro alle quinte, Si tratta di dinamiche che soprattutto le amministrazioni locali devono conoscere e studiare. Noi come commissione regionale stiamo strutturando degli strumenti di comunicazione diretta tra la Regione e le amministrazioni locali del territorio proprio per far arrivare loro le informazioni».
Capita che comuni, soprattutto piccoli, siano in difficoltà ad affidare appalti con la certezza che siano “puliti”.
«La maggior parte dei comuni fa affidamenti diretti sottosoglia, ma anche dove svolga delle gare è difficile fare filtro: bisogna investire tanto sulla formazione, soprattutto il realtà piccole, dove più gli stessi mafiosi strategicamente fanno affari perché sanno che in comuni grandi ci sono più controlli. Occorrerebbe creare una banca dati a disposizione di tutte le amministrazioni collegata con prefettura, direzione distrettuale antimafia, tutti i soggetti che possono avere informazioni relativamente agli appartenenti a un organico di una società. Se c’è un apparentamento nascosto con i clan possiamo saperlo solo se condividiamo informazioni».
Le mafie potrebbero approfittare dell’emergenza Covid?
«Posto che il governo ha messo a disposizione un ingente quantitativo di soldi, l’equilibrio che bisognava trovare era tra il far arrivare questa liquidità nell’immediato – la chiave essenziale per evitare che le mafie trovassero in questa carenza autostrade ampie lungo cui correre – e il fatto di non derogare a tutti i controlli. Ho letto di molte proposte interessanti su come si sarebbe potuto fare, ad esempio con un conto corrente dedicato ad ogni impresa, tracciabile, per verificare l’utilizzo dei soldi oppure fare arrivare subito il denaro e al contempo aumentare gli organici della guardia di finanza per fare più controlli in tempi più brevi».