Il pm Mapelli, da Monza a Bergamo: «I miei 30 anni in città, da Tangentopoli a oggi»

Walter Mapelli è il nuovo Procuratore capo di Bergamo. In piazza Garibaldi a Monza lavora come sostituto da quasi trent’anni: ricorda e li racconta in una intervista al Cittadino. Da Tangentopoli a oggi.
Walter Mapelli, da Monza a nuovo procuratore di Bergamo
Walter Mapelli, da Monza a nuovo procuratore di Bergamo Pozzi Attilio

Walter Mapelli è il nuovo Procuratore capo di Bergamo. In piazza Garibaldi a Monza lavora come sostituto da quasi trent’anni. I ricordi si dipanano mentre la Procura trasloca in via Solera, oggi finalmente nuova sede dei pm. Mapelli racconta mentre trasferisce le ultime cose dal suo ufficio nella nuova struttura. Nel corridoio tra i due palazzi spinge con un carrello una bilancia, e risponde alle battute del personale e alle domande del Cittadino.

Quasi 30 anni a Monza: com’è questa procura per chi l’ha vissuta da dentro?
Sono arrivato qui nell’87, e da allora sono cambiate molte cose. Siamo passati dal codice Rocco al nuovo codice di procedura penale di Pisapia (padre), a propria volta largamente modificato. Ed è cambiato il modello organizzativo. Oggi ci salviamo proprio grazie a dedizione del personale, organizzazione e informatica. Altrimenti saremmo già tecnicamente falliti.

Tangentopoli ha segnato la storia di questa Procura, e lei ne è stato protagonista. La corruzione c’è ancora?
Prima del ‘92 c’era una classe di intoccabili. Molti magistrati pensavano che i veri delinquenti fossero quelli di strada, e che le classi dirigenti (politici, notai, avvocati, commercialisti, giudici, imprenditori) non potessero delinquere. Tangentopoli ha mostrato che non era vero. I prodromi a Monza si ebbero nel ’91 con un’inchiesta relativa sull’Ufficio Tecnico del Comune di Cologno Monzese. Cifre significative – circa mezzo miliardo di lire – rispetto all’ente e al ruolo del condannato. Poi nel ’92 abbiamo pensato di convocare gli imprenditori. Se a 15 km di distanza si cominciava a smascherare il fenomeno della corruzione, in Brianza le cose non potevano essere diverse. E hanno cominciato a parlare: c’era Di Pietro a Milano, erano stufi e pagare non era più conveniente.

E oggi?
Ci ritroviamo ancora la corruzione perché è difficile affrontare i problemi in modo progettuale. Pensiamo ai bond Cirio: quando esplose il caso, tutti ad assicurare che non sarebbe più successo; dieci anni dopo, ecco Banca Etruria. Si preferisce cavalcare il dolore del momento. Capitano dieci omicidi stradali? E quella diventa l’emergenza da tamponare… Abbiamo, certo, un tasso di illegalità troppo diffuso. Penso all’evasione fiscale: lavori e forniture non fatturati, con sottrazione di imponibile. Per ottenere qualche risultato occorrerebbe non solo reprimere l’illecito ma rendere conveniente l’agire legale.

Cirio, Impregilo, bancarotta Bburago, riciclaggio Imi Sir: inchieste nazionali partite da Monza. Che rapporto c’è tra giustizia ed economia sul territorio?
La criminalità finanziaria era sottovalutata. Gli anni ’80 sono stati di crescita: non c’era la percezione della pericolosità della criminalità finanziaria. Si pensava: perché infierire se un’azienda fallisce? Ora c’è una consapevolezza diversa. Al profilo investigativo sono chieste competenze tecniche molto qualificate: bisogna confrontarsi col diritto commerciale, tributario, societario, con l’economia aziendale, con altri referenti specialistici e con le Autorità e le normative estere. Inchieste come quella sulla First Merchant Bank di Cipro, che ci mise sulle tracce del danaro del Pkk di Ocalan, furono possibile grazie all’interazione con l’allora Ambroveneto, oggi Intesa, e la Turchia.

Qual è la sua inchiesta migliore?
L’indagine sul riciclaggio dei fondi Imi Sir (mille miliardi di lire pagati dallo Stato all’imprenditore brianzolo Nino Rovelli in seguito a una sentenza frutto della corruzione del Giudice, per la quale è stato condannato tra gli altri anche l’avvocato Cesare Previti, ndr). Il tasso di probabilità di trovare soldi e responsabili era prossimo allo zero: lire diventate franchi svizzeri, poi euro, dollari americani, sterline che si perdevano in mezzo mondo. Fu un’inchiesta utile per capire i sistemi di riciclaggio. E poi c’era l’impatto sociale: se non fossimo riusciti nel nostro intento, Banca Intesa avrebbe avuto dallo Stato qualcosa come un miliardo di euro di risarcimento…

La Procura si è distinta per l’attenzione al tema dei fallimenti. Come è cambiato, da questo punto di vista, il tessuto economico brianzolo?
L’intervento della Procura si è reso necessario dopo che nel 2006 il Tribunale non ha più potuto dichiarare il fallimento d’ufficio. Così, al passo indietro del Tribunale consegue un passo avanti nel processo civile fallimentare del pm, proprio per evitare che imprese decotte continuino a operare. Le imprese brianzole vanno a due velocità: quelle che hanno innovato, (penso all’automotive o alla robotica), o quelle che, pur operando in settori “maturi”, lavorano su mercati esteri generano buoni profitti; le altre non hanno grandi prospettive.

Qual è invece il maggior rimpianto?
Leonid Minin, l’israeliano di origini ucraine che trafficava armi con la Sierra Leone e la Liberia del dittatore Charles Taylor. Le carte dell’inchiesta di Monza sono finite anche nel fascicolo della corte internazionale, che si è occupata proprio di Taylor. L’indagine aveva ricostruito in dettaglio due trasporti aerei di armi e munizioni destinati ai ribelli del Ruf mentre Minin aveva ammesso parte delle condotte. La Cassazione, con una sentenza “innovativa” e discutibile, ha rilevato il difetto di giurisdizione e il processo non si è celebrato. Un fatto curioso: l’inchiesta è stata ripresa in larga parte in un film, Lord of war, con Nicholas Cage che interpreta un personaggio con molti punti di contatto con Minin, La trama ricalca proprio le vicende individuate nell’inchiesta.

Ha mai pensato di entrare in politica?
C’è stato qualche contatto, subito abbandonato, perché non ho mai pensato a un impegno in politica. Magistratura e politica non sono conciliabili, oggi più di ieri. Se un magistrato viene eletto – di più, se vuole candidarsi e prendere la strada della politica – non dovrebbe poi poter rientrare perché appare evidente l’appannamento delle Sua immagine di autonomia e indipendenza.

Chi ricorda tra i suoi colleghi?
Uno per secolo: Antonino Cusumano negli anni ’90 e Antonio Pizzi dal 2005 al 2009. Il primo, magistrato di vecchio stampo, arrivò a guidare la Procura sulla scorta della sua grande esperienza senza attenzione particolare all’organizzazione del lavoro. Lo ricordo con affetto: ha avuto il merito di fidarsi di noi, di lasciarci piena autonomia. E quando c’era qualche problema ci metteva lui la faccia. Grazie a questa libertà ha permesso a noi tutti di dotare la Procura di un embrione di modello condiviso, partecipato, efficace. Pizzi, invece, era un magistrato di nuova generazione. Aveva istruito l’inchiesta sul Banco Ambrosiano e poi guidato diverse Procure. A Monza diede definitivo impulso al lavoro dei pm, attraverso turni prefissati a lunga scadenza, modulari comuni, centralizzazione dei servizi seriali e degli affari semplici e altri accorgimenti. Ha reso così più efficiente il servizio. Diceva che ero una sua creatura… mi ha voluto in piazza Garibaldi al suo fianco nella gestione dell’Ufficio e della relativa organizzazione. Con Cusumano crebbe un gruppo di sostituti procuratori affiatato, con magistrati come Alessandra Dolci, Olindo Canali, Valter Giovannini, Salvatore Bellomo (l’unico rimasto qui a Monza). Cito anche altri colleghi, quelli tutt’ora presenti e alcuni trasferiti come Donata Costa, Luigi Salvadori e Giordano Baggio, dei quali ho grande stima e per i quali credo di essere stato una sorta di fratello maggiore. E un sincero affetto mi lega a gran parte del personale amministrativo e di Polizia Giudiziaria.

In questi anni sono diventate sempre più numerose le inchieste sulla presenza della criminalità organizzata in Brianza. Com’è oggi la situazione?
È cresciuto il livello di risposta: la Dda di Milano ha fatto un gran lavoro, la tensione ora è quella giusta. Alcune amministrazioni della zona si sono ripulite: tutti segnali di grande attenzione. Rispetto a qualche anno fa siamo meglio attrezzati dal punto di vista investigativo, e le istituzioni pubbliche e private sono più presenti . La ’ndrangheta ha accusato il colpo. Pensiamo alla vicenda cosiddetta della “banca della mafia” attiva a Seveso. Chi la gestiva era una figura di secondo piano, venuta alla ribalta dopo gli arresti di Infinito. Tra l’altro avevano preso come “consulente” un ex amministratore della Metalli Preziosi di Paderno Dugnano, già inquisito per bancarotta… Un esempio di come criminalità organizzata e criminalità finanziaria siano interattive, ma anche di come i colpi inferti abbiano messo in difficoltà la ’ndrangheta, costringendola ad avvalersi di rincalzi o di persone già compromesse.

Alla fine qual è il bilancio dell’esperienza a Monza?
Monza e il suo territorio hanno grandi potenzialità, si tratta del primo distretto manifatturiero d’Italia per valore aggiunto per addetto e la città esprime persone capaci. Ma questi talenti non determinano ricadute importanti sul territorio: vanno altrove. E, se restano, non sempre sono riconosciute. Quello che manca è il salto di qualità: una maggiore vivacità culturale, di iniziativa, di rilievo politico e sociale pari all’importanza economica e alla sua tradizione storica. Facendo le debite eccezioni, sembra che il benessere, invece di fornire strumenti per la valorizzazione del territorio, finisca per alimentare una sorta di appagamento, che evita di sfruttare fino in fondo la creatività di una terra con grandi risorse in termini di ingegno e innovazione.