“Diverso da chi?”: ma sono già un olimpionico della disabilità o ne manca?

LEGGI Puntata 1 - 2 - “Diverso da chi?”, la rubrica di Nicolò Cafagna. Con franchezza e (molta) ironia racconta la sua vita con disabilità. La terza puntata e l’ingresso nel mondo del professionismo dei disabili fisici.
“Diverso da chi?”: ma sono già un olimpionico della disabilità o ne manca?

Il mio ingresso nel mondo del professionismo tra le fila dei “sofferenti”, sezione disabili fisici, avvenne durante la primavera del 1996 – sì, il prossimo anno “festeggio” i vent’anni da professionista – quando decisi, poiché in un certo senso di decisione si trattò, di appendere le gambe al chiodo. Ma come tutti i professionisti anch’io ho fatto la mia gavetta, i miei romantici anni da dilettante.

L’attività dilettantistica la cominciai alla tenera età di due anni, quando ancora mi limitavo a gattonare: «Ho tutto il tempo per camminare», mi dicevo ingenuamente, «tengo quindi fede alla filosofia del “Pigronismo”, perché che senso ha stancarsi inutilmente?».
Su questo, infatti, aveva visto giusto quel dottore, la cui attività fu caratterizzata dalla lungimiranza, che scoprì la mia pigrizia, mentre non si rese affatto conto del “talento” ancora inespresso della Francesina (il nome esotico della distrofia muscolare di Duchenne). Così, per dispetto al dottore, decisi di dar sfogo ai miei piedi, anche in vista dell’asilo: capii che per fare, appunto, i dispetti e far ricadere la colpa sui miei piccoli “colleghi”, bisognava fuggire a gambe levate.

1/ “Diverso da chi?”: la mia vita con la Francesina è una questione di Principio

2/ “Diverso da chi?”: il 24 maggio 1995, il Milan e la scoperta dell’(auto)ironia

Dai simpatici dispetti e dai castighi che ne conseguivano, passò qualche anno quando una fisioterapista intuì il talento in me nascosto. E se da cosa nasce cosa, ecco la prova del nove: la biopsia. L’intervento al San Gerardo, dove quei simpaticoni per farmi distrarre, mi fecero ricoverare nel reparto di neuropsichiatria infantile: compagno di stanza un 17enne un tantino originale, il cui passatempo preferito era quello di alzarsi nel cuore della notte in piedi sul letto, a torso nudo e a mettersi a urlare.

«È innocuo», dicevano le infermiere. Sarà, ma fu comunque “Un ricovero di ordinaria follia”. In tutto questo, ridendo e scherzando, la fisioterapista di cui sopra fece bingo con la diagnosi: a me, invece, l’onore e l’onere di riscuotere la cospicua vincita. E la Francesina si attivò: a 8 anni l’operazione più nobile, purtroppo senza matti a farmi compagnia. Cento punti, che tuttora mi consentono di vincere nelle gare “a punti” sulle operazioni subite. Sì, mi piace vincere, ma per farlo bisogna dire che l’impegno non manca…

Dopodiché un piccolo periodo di pace, mentre il primo traguardo, quatto quatto, si avvicinava sempre più: 13 anni da compiere e il professionismo già in tasca, o meglio sotto “i ciapp”. A fronte di troppe cadute e maggiori fatiche, “decisi” che era arrivato il momento di fare il fatidico passaggio a una più attraente quattro ruote. Va, tuttavia, riconosciuta alla Francesina una buona dose di genialità, poiché fa in modo di farti “sedere” – perché così è meglio – ma fa ricadere la colpa su di te: «Chi ha deciso di smettere?», sento già la sua voce. Oppure: «Chi alzò la mano quando venni “distribuita”?». E su questa, ahimè devo solo tacere.

Fu così che mi trovai nel favoloso mondo del professionismo, ma lei non era ancora contenta – l’arrivista – e puntava all’Olimpo della disabilità. Così piano piano, in perfetto stile australiano “take it easy”, ridusse sensibilmente le mie forze: a partire delle braccia, tanto a scuola non le alzavo mai (averlo saputo prima, magari…). Poi ha ridotto la forza nelle mani: temeva che prendessi carta e penna e scrivessi una rubrica ironica su di lei, ma questa volta sbagliò a fare i conti (ih ih ih). Tuttavia riuscì nel suo obiettivo di più ampio respiro, ovvero quello di occuparsi del respiro stesso: con la grande polmonite del 2007 – tappa quasi inevitabile per un “transalpino”, come per un delinquente finire dietro le sbarre almeno una volta nella vita -, divenne inevitabile l’utilizzo del ventilatore. Quest’ultimo è quel simpatico apparecchio, la cui mascherina adorna il mio viso, togliendo spazio alla sua bellezza, ma lasciandolo a una battuta estiva da far al malcapitato/a di turno: «Inizia a far troppo caldo, non è che mi puoi accendere il ventilatore?».

Ora, il simpatico marchingegno, mi tiene sempre più compagnia (evvai), non che gliel’abbia chiesto: è fatto così, cosa ci posso fare? Gli dai un po’ di fiato e lui si prende tutto il polmone.

Questa attualmente è la mia conformazione, l’assetto studiato per me dall’arrivista, e questa la domanda da un milione di dollari: quanta strada dovrò ancora percorrere per entrare nell’Olimpo della disabilità o senza rendermene conto vi sono già approdato?