Chi non si faceva vedere da trent’anni e chi è arrivata apposta a Monza da Perugia. Chi ricorda ancora come fosse ieri il giorno dell’inaugurazione del “grande magazzino”, il 24 settembre 1960 e la folla che per l’occasione si accalcava fuori dalle vetrine, e chi conserva nel cuore gli anni trascorsi nei suoi reparti: una quarantina le ex commesse della Upim che hanno partecipato alla reunion organizzata da Antonietta Monzo e Delia Parrella.
Quella di martedì è stata una serata all’insegna dei ricordi e della nostalgia: «Andare a lavorare era una gioia – raccontano – non eravamo solo colleghe, ma grandi amiche. Per noi la “Upim” è stata una scuola, ci ha insegnato tutto».
Dal buono per andare dal parrucchiere, che l’azienda regalava a ognuna di loro perché «si fosse sempre in ordine, curate», alle passeggiate con i militari che all’epoca erano di stanza nella caserma di piazza San Paolo, così «li aiutavamo ad ambientarsi, venivano tutti da lontano»: gli anni alla Upim sono stati gli anni della loro giovinezza. Tra tante donne martedì sera c’era anche l’unico ex commesso, Giovanni Vinci, ormai settantaduenne: «In mezzo a tutte quelle signorine – commenta con un sorriso – si stava da dio».
La storia – Perché c’era una volta l’Upim, con le sue commesse gentili e sorridenti. C’era una volta e, in qualche modo, c’è ancora: perché, se lo storico grande magazzino monzese ha chiuso ufficialmente i battenti nel 2011, la sua memoria continua a vivere.
In tanti modi. L’edificio che lo ha ospitato per oltre cinquant’anni è infatti diventato, per i monzesi, “il palazzo ex Upim” e lo spiazzo antistante, lungi dall’essere menzionato come piazza Centemero e Paleari, continua a chiamarsi per tutti “piazzetta dell’Upim”.
E a far rivivere la storia di quello che è stato il primo, “modernissimo Magazzino” della città, ci sono loro: le signorine che in quegli spazi hanno trascorso tanti anni della loro vita.
«Alla renunion saremo circa una trentina – aveva anticipato Antonietta Monzo, ex commessa e organizzatrice, assieme a Delia Parrella, della rimpatriata – alcune di noi sono in pensione, altre lavorano ancora. Quando ci siamo conosciute eravamo delle ragazzine: ci ritroviamo, ora, più che adulte. Molte di noi sono diventate nonne. Nonostante le infinite, diverse strade che possa aver preso negli anni la nostra vita siamo rimaste in contatto, sempre molto unite tra noi».
All’epoca lavorare nel grande magazzino del centro voleva dire tanto: «Per noi non era solo un luogo di lavoro – ha ricordato – Era molto di più. Ci prendevamo cura di quegli spazi, di quei reparti, come se davvero fossero nostri: come se davvero fosse casa nostra. Coltivavamo la clientela, ci prendevamo cura della merce – ha proseguito – E lo facevamo così bene da aver vinto anche qualche premio».
E questo nonostante il vento della storia si infilasse, a tratti, anche nei suoi reparti e nei suoi corridoi, scompigliando con refoli sessantottini vestiti e posizioni sindacali: «Abbiamo partecipato anche noi a qualche sciopero, restando sempre nei limiti di quanto consentito dalla legge – ha ricordato Monzo – e ho bene in mente il periodo in cui ha preso piede la moda degli shorts e delle minigonne: uscivamo di casa con la gonna lunga e ci cambiavamo, per metterne una più corta, lungo il tragitto verso il lavoro».
Negli anni Settanta il grande magazzino contava circa 120 dipendenti, tra personale impiegato in reparto e quello in ufficio e i fattorini: «Si lavorava tanto: eravamo un punto di riferimento anche per i comuni vicini, non solo per la città di Monza».
Approfondita era anche la preparazione richiesta alle commesse: «Ognuna di noi aveva deciso di diventare commessa – ha proseguito Monzo – non l’aveva scelto per caso o per assenza di altre alternative, come troppo spesso capita al giorno d’oggi, quando si diventa commessi quasi per ripiego».
E ancora: «Noi tutte prima abbiamo frequentato una scuola, che prevedeva un certo tipo di apprendistato, dove molta importanza era data anche all’educazione e al modo di rivolgersi alla clientela».