«Ognuno di noi ha e cerca di avere la sua baita per vivere nella propria dimensione di uomo fra gli uomini, in pace»: Giovanni Battista Stucchi
sarebbe fierissimo di Rosella. La figlia dell’uomo tra i più importanti del Corpo volontari della Libertà, continua il lavoro lasciato a metà per la morte di Gibì, non arretrando di un passo di fronte alle difficoltà o alle invidie per procura. D’altronde, il sangue non mente. È presidente dell’Anpi di Monza.
Colto e aperto alle novità, Giovanni Battista Stucchi – alla soglia dei quarant’anni – dice basta all’ottusità dilagante del Regime. Anno di disgrazia 1943: l’avvocato entra, dopo l’8 settembre 1943, nel comitato del Cvl e sarà – fino alla Liberazione – uno dei massimi dirigenti della Resistenza. Rosella ha il piglio del suo papà. Un misto di autorevolezza, di rigore e di acuta sensibilità.
La libertà e la pace sono beni indivisibili, comuni a tutti i popoli, nella difesa dei quali tutti gli uomini devono essere utili. Basta che un solo popolo sia privato della sua libertà perché una minaccia incomba su tutti gli altri. Gianfranco Maris descrive bene l’ultimo anno di guerra, il 1945.
Avevo solo nove anni. L’ultimo inverno della guerra – nel 1944 – vivevo a Milano con un falso nome, perché temevamo che costringessero papà a uscire dalla clandestinità. Abitavamo in una casa di un lontano parente, vicino all’arco della pace: non ero molto spaventata, perché ero protetto dalla mia mamma. Lei diceva: papà non ha fatto nulla di male, quando sarai più grande, capirai. Un mese e mezzo prima della Liberazione, è ricomparso papà, perché il comando generale era stato ospitato in un collegio di suore, il monastero della Riparazione. Mia mamma mi ha avvertito: nel cortile del palazzo, non dirgli: ciao papà; siamo clandestini anche noi. Papà è arrivato a casa: barba, baffi… un prefetto sconosciuto.
Anche perché Gibì Stucchi, coordinatore dell’attività militare della Repubblica dell’Ossola, si era trasferito a Berna e a Lugano per perfezionare la sinergia tra le forze anglo-americane e i partigiani del Nord.
Mio papà era stato in Svizzera fino a poco prima, ed era arrivato da poco a Milano. Dopo l’esperienza della Repubblica dell’Ossola, era stato deputato a tenere i contatti con gli Alleati: un compito delicato e di grandissima responsabilità. Io ero troppo piccola per avvertire l’importanza di mio papà. Crescendo, ho capito tutto: lo spirito di sacrificio, la dirittura morale e la limpida coerenza dell’uomo. In questi giorni, sono stata intervistata da Rai Tre per la ricorrenza del 70esimo della Liberazione. Mi sono ritrovata in mano i fogliettini del suo libro: un’emozione indescrivibile. E’ una cosa risaputa: ma il mio papà ha avuto una importanza grandissima per la mia famiglia.
Partiamo dall’inizio. Capitano degli alpini, Stucchi vive l’incubo della ritirata di Russia. Scriverà dopo la battaglia di Nikolaevka: «Fattore determinante era che al di là del massacro, esisteva “ol pais”, quello vero, ossia tutto ciò per cui valeva la pena di arrischiare la vita».
È stata un esperienza allucinante. La dote che ha salvato mio papà è stata la prudenza: non scansava i pericoli, ma ci andata ben corazzato. Sempre con gli sci che isolavano dal freddo; con calzettoni puliti e asciutti sotto la camicia; cambi frequenti di biancheria. Scherzava ma non tanto: la Resistenza l’ho fatta due volte, come portaordini e poi come partigiano. È stata una ritirata tragica. Ma aveva fatto grandi amicizie: Nuto Revelli, Beppe Novello, don Carlo Gnocchi.
Gibì Stucchi uomo di parte, secondo molti a Monza. Una critica ingenerosa per un protagonista a tutto tondo della Resistenza e della rinascita dopo la tremenda esperienza della Seconda guerra mondiale.
Ho trovato un articolo di Carlo Leidi, il figlio di Vittorio, raffigurato – tra l’altro – nella copertina di “Tornim a baita” e che ha fatto la ritirata di Russia con mio papà. Il titolo del pezzo? L’equilibrio di un uomo di parte. Una sintesi splendida e anche affettuosa: perché mio papà era così. E’ sempre stato di sinistra, anzi, di sinistra del Partito socialista. Quando c’era una parte del Psi che si separava ed era più a sinistra, lui c’era. In consiglio comunale diceva: sono così a sinistra, che sento lo spiffero della porta. Era, però, un uomo giusto e imparziale. L’intitolazione di viale Gigì Stucchi è stata chiesta da un ex fascista. Da raccontare: un amico di papà era stato fino all’ultimo podestà dell’Isola dei pescatori. Alla fine della guerra, arriva la resta dei conti. L’amico chiede a papà: non sono sicuro di sfangarla. Puoi mettere un buona parola per me? Mio papà è glaciale: non posso fare niente, dovevi pensarci prima. Poi, comprensivo: dai, non farti vedere per un po’. L’amico non ha fatto niente di male, per cui il peccato è stato perdonato. Quando abbiamo presentato il libro testamento, l’amico ha chiesto pubblicamente di intitolare una strada a mio papà, ed è stato accontentato.
Stucchi libero da parrocchiette e concezione prefabbricate.
L’ideologia non aveva molta importanza, per i componenti del Comando generale. Mio papà è stato legato – soprattutto dopo la guerra – a Parri e a Mattei. Con Parri aveva affinità di pensiero e un’amicizia addirittura fraterna. L’ultima volta che ha visto in vita Parri, a Roma, mi disse: non mi ha riconosciuto, ed era molto afflitto. Enrico Mattei, rappresentate della Democrazia cristiana, fu un altro caro amico per mio papà. Mattei era un uomo affascinante: impossibile restare impassibile, era la simpatia in persona. Papà aveva trasmesso la passione della pesca; anch’io, ragazzina, sono stata a pesca con Mattei, nella riserva del lago di Anterselva, in Alto Adige.
Capitolo giovani. È vero che Gibì aveva la passione di ascoltare e consigliare i ragazzi di allora?
Questione di carattere: mio papà aveva il dono di ascoltare proprio tutti, tanto che era amico anche di tanti che non erano stai antifascisti. Le discussioni più stimolanti erano riservate ai giovani; meglio, i giovani più rivoluzionari. Lo andavano a trovare in ufficio per chiacchierare, per esporre i loro problemi. Un’assunzione di responsabilità che ha dato i frutti sperati.
«Debbo dire che le mie impressioni al primo contatto con la città non furono confortanti. Non è che mi aspettassi di trovare un popolo in rivolta, ma di udire almeno qualche voca risoluta che, a costo di rischiare il carcere, si levasse dal malcontento generale a reclamare la cessazione della carneficina e a invocare la fine del fascismo che ne era all’origine». A parte le lodevoli eccezioni, Monza era una città seduta.
Premessa: gli afascisti ci sono ancora adesso. Mio papà era conosciuto in città per essere un avvocato: con la sua libera professione, aveva evitato di prendere la tessera del Partito fascista. Ma quando Mussolini è venuto in città per inaugurare il monumento ai Caduti, papà è stato chiamato in Questura per requisire il passaporto, poi restituito: sapevano tutti che era un antifascista. Papà si rimproverava di essere “un antifascista dietro le persiane”. Dopo la ritirata di Russia, ha capito che non si poteva più stare a guardare, bisogna fare qualcosa. Ha preso contatto con amici antifascisti come Citterio, Gambacorti Passerini: il suo libro è dedicato a loro e a Poldo Gasparotti, di Milano. Papà è morto nel 1980: era pronta solo per la pubblicazione la prima parte, i capitoli – cioè – della ritirata di Russia.
Parere personale: “Tornim a baita” è un libro bellissimo, anche se incompleto.
La prima parte di “Tornim a baita” è decisamente la migliore. Giorgio Roscat, che ha fatto la prefazione, ha detto: esistono tre tipi di libri che documento la Seconda Guerra Mondiale: il capolavoro (Nuto Revelli, Rigoni Stern); le testimonianze genuine; i romanzi alla Bedeschi. Suo papà è nella seconda categoria. La seconda parte l’ho trovata tutta su fogli e foglietti. Non ho voluto sacrificare niente, tanto che, qualche volta, ho dovuto scrivere a matita l’interpretazione.
Dopo la Resistenza, Stucchi ritorna a Monza e prosegue la professione di avvocato. Dal 1953 al 1958 è deputato; poi trent’anni di consigliere comunale (Psi e Psiup).
Cito dai foglietti di papà: «Il dopo Liberazione. Un lungo dialogo condito di delusione e di rabbia». Era molto deluso. Dopo la guerra, siamo ritornati alla normalità. Vivevamo a Monza, avevamo la nostra casa: il massimo. Eppure, papà era inquieto. Spesso, a tavola, lo trovavo in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. Il sindaco di Monza, Roberto Scanagatti, durante la commemorazione della morte di Gianni Citterio a Medolo, ha citato a lungo mio papà. Cito a memoria: «Il paese più libero è quello che ha meno disoccupati».
31 agosto 1980: Gibì Stucchi muore improvvisamente, nel sonno.
Abitavamo appartamenti comunicanti, i miei figli sono cresciuti con il nonno. Quanto è mancato, i miei grandi avevano 18 e 19 anni e erano già uomini, mentre le ragazze erano più piccole. È stato un grandissimo dolore. Ma il ricordo resta. Ci sono tanti monzesi che lo ricordano e lo ammirano. Siamo stati fortunati da avere un nonno così e un papà così.
La Resistenza negli anni Duemila: un capriccio o una necessità?
Noi della Resistenza non siamo stati né vinti né vincitori. Abbiamo vissuto momenti prodigiosi, momenti di decisi avanzamenti verso il processo sociale, seguiti da momenti di regresso in una situazione di crescente conflittualità. Ma i momenti di regresso non sono riusciti a cancellare del tutto ciò che nell’animo nostro è stato costruito dalla lotta di Resistenza. Il nostro lavoro è quello mantenere vivo il valore e gli insegnamenti della lotta di liberazione proseguendo nella stessa linea tracciata da mio papà.