Poco dopo le 7 del mattino del primo dicembre 1923 diverse persone si trovarono improvvisamente, senza spiegazioni, infradiciate. Qualcuno pensò alla pioggia, ma non pioveva. Avevano tutte appena messo un piede fuori di casa. Loro, e tanti altri, non sapevano che in alto alla valle la diga appena conclusa aveva ceduto. E che non meno di 6 milioni di metri cubi di acqua, fango e detriti si stavano scagliando verso il lago d’Iseo a partire da Gleno.
100 anni fa il disastro della diga del Gleno: 365 vittime
Non era pioggia: era l’onda d’urto della massa d’acqua che spingeva in avanti il vapore, un avvertimento impalpabile di quanto stava per accadere. Prima Bueggio, poi Povo e Valbona, il ponte Formello, il santuario della Madonna di Colere. Subito dopo Dezzo, Azzone e Colere, Mazzunno e Gorzone, Boario e Corna di Darfo. Il lago di Iseo. Sono bastati quarantacinque minuti per spazzare via case, centrali elettriche, edifici, chiese. E almeno 365 vite. Quelle che nei sette anni precedenti avevano visto costruire metro a metro l’enorme diga del Gleno, l’altro Vajont, quarant’anni prima del Vajont.
Val di Scalve, Bergamo. Un disastro che compie un secolo e che porta diritto in Brianza, a Ponte Albiate, Triuggio. Lì dove nella tardiva rivoluzione industriale italiana la famiglia Viganò aveva deciso di crescere. Il progetto delle dighe per produrre energia elettrica esisteva già da anni, nella valle, ma nel 1916 la ditta Galeazzo Viganò si trova a fare i conti con il rischio di un’impennata di costi elettrici: il contratto di fornitura delle sue industrie era in scadenza, salasso alle porte, il fondatore decide di fare da sé. Come? Con l’energia delle dighe in Val di Scalve, a Gleno, e magari non solo.
100 anni fa il disastro della diga del Gleno: la ditta Viganò
Ponte Albiate: da lì era partito Galeazzo Viganò per costruire il suo piccolo impero di cotonifici in Brianza. Era stato direttore della Manifattura Caprotti, ha ricostruito Sergio Piffari per valdiscalve.it, la stessa famiglia del futuro Bernardo Caprotti che ha inventato Esselunga. Poi la scelta di mettersi in proprio: la prima tessitura a mano nel 1870, dieci anni dopo un mulino ad acqua sul Lambro per fare marciare i telai meccanici. Quindi tintoria e filatura. Alla fine del secolo i dipendenti sono 2.000, Galeazzo diventa un industriale illuminato, promuove attività benefiche nel suo territorio. Piffari sottolinea come al suo funerale, nel 1901, avrebbero partecipato 20mila persone.
Dopo di lui, i figli, che avevano affiancato il padre quando era in vita, e il problema energetico che si fa sentire nel 1916, quando la “Galeazzo Viganò” “accetta la proposta di subentrare nei diritti dell’ingegnere Giuseppe Gmür che prevede la costruzione di una diga alla Piana del Gleno sul torrente Povo, in Val di Scalve, a 1.500 metri di altitudine. Gmür, il quale ha lo studio a Bergamo, dove è molto noto e vanta numerose conoscenze nei posti di responsabilità, ha già avuto a che fare con i Viganò, ha infatti progettato la grande villa di Campello di Albiate di proprietà di Michelangelo Viganò, uno dei figli di Galeazzo”, scrive Piffari.
100 anni fa il disastro della diga del Gleno: il cantiere
Tutto bene, insomma. No. I lavori partono, tra attese per le autorizzazioni del Genio civile, cantieri partiti in anticipo (“è prassi errata, ma corrente”), dubbi, richieste di chiarimenti, interferenze degli imprenditori nel lavoro degli ingegneri e dei direttori del lavoro (tanto cambiano, rinunciando all’incarico) perché occorre fare in fretta. E lettere anonime per dire che non si usano i materiali adeguati, sospetti che meriteranno giusto sopralluoghi senza troppe verifiche. Metro dopo metro, la diga sale: solo poi, più tardi, i testimoni racconteranno di lavori eseguiti male, con malta che non prende, murature a secco dove non era pensabile farle, perdite della diga già dall’inizio, sottovalutate da chi avrebbe avuto il dovere di verificare.
Sale la diga, metro dopo metro. In fondo nella valle contadina c’è anche chi pensa che porta lavoro, come testimonia nel 2014 Apollonia Tagliaferri al sito begamoeconomia.it: quel giorno del 1923 aveva nove anni. “Se il crollo era prevedibile? Sì – ha raccontato quasi dieci anni fa – So che chi poteva, a Dezzo, dormiva altrove. Chi aveva lavorato nel cantiere della diga vedeva ogni giorno che il materiale usato non era buono, che non si lavorava bene e che si facevano le cose alla buona. C’era paura perché si temeva che sarebbe crollata da un momento all’altro però, d’altra parte, se fosse crollata, si pensava che sarebbe stata ricostruita e che ci sarebbe stato ancora da lavorare”.
100 anni fa il disastro della diga del Gleno: le modifiche
Nel mese di maggio del 1921 il progetto cambia, anche perché la famiglia Viganò, dati i ritardi, pensa ormai utile ampliare il progetto creando altri bacini per produrre energia elettrica non solo per sé, ma anche da vendere ad altri. Sta di fatto che l’impianto del Gleno, in costruzione, passa alla prospettiva di 1.550,50 sul livello del mare con il pelo dell’acqua a 1.548 metri, “avrà uno sviluppo di 260 metri, con una parte ad arco e due parti rettilinee, una superficie di 400.000 metri quadrati e una capacità di 6 milioni di metri cubi. Per la costruzione della diga ad archi non viene più utilizzata la calce di Valbona, o Triangla, venduta a privati, ma solo cemento nella quantità di 66.000 quintali” scrive ancora Piffari in base alla documentazione raccolta.
Alla metà di ottobre del 1923, a poche settimane dal disastro, l’acqua nel bacino raggiunge il colmo a 1.548 metri, cioè 38 metri dalla base della diga. Verso la fine del mese l’acqua, con le piogge, cresce, e qualcosa non va: perdite d’acqua alla base, sopralluoghi, ispezioni, di fronte alle quali Virgilio Viganò, l’erede della ditta, si dice “tranquillissimo“. Sembra non fosse così per gli abitanti della vallata, che sapevano dai compaesani com’era stata costruita la diga. Molti, raccontano i testimoni, portavano i figli a dormire altrove. Nel mese successivo le piogge proseguono e la situazione si fa sempre più critica: intorno al 29 di novembre sembra vengano fatti dei tentativi per fermare o limitare il flusso d’acqua dagli sfioratori, ma l’operazione non è chiara: teoricamente andrebbe abbassato il livello nella diga per evitare danni alle strutture. Il giorno dopo, altri interventi, gli ultimi. Perché alle 7.15 del mattino del primo dicembre, la diga cede.
100 anni fa il disastro della diga del Gleno: il processo
Porta con sé centinaia di vittime. Due giorni dopo sul luogo del disastro arriva il re, Vittorio Emanuele III, il figlio di Umberto I ucciso quasi un quarto di secolo prima a Monza. Con lui c’è Gabriele D’Annunzio. Vedono Darfo, non riescono a raggiunge altre località devastate dalla massa d’acqua. A fine mese il procuratore del re incolpa la ditta Viganò e l’ingegnere che ha guidato i lavori di omicidio colposo di 500 persone. Tre anni di processo, la prima condanna del 4 luglio 1927, al tribunale di Bergamo, a 3 anni e 4 mesi di reclusione per Virgilio Viganò e l’ingegnere. Pene poi passate a due anni e senza la multa iniziale di 7.500 lire. Poco più di 6mila euro oggi, per una valle cancellata: cancellati anche loro.