Pur di rivedere sua moglie, rischiò di finire davanti alla corte marziale come disertore. Alla fine se la cavò, ma allora Alberto Capra non poteva sapere che, paradossalmente, una condanna gli avrebbe probabilmente salvato la vita e che gli avrebbe, soprattutto, permesso di rivedere la sua Rosetta. È una storia d’amore che riemerge dalle tenebre della Storia, quella tra Alberto e Rosa anche se, fino a qualche mese fa, della vicenda di questo muggiorese morto in Germania durante la Seconda Guerra Mondiale non si sapeva nulla, tanto meno come avesse fatto a finire nello Stalag VIII-A, un campo di concentramento tedesco per prigionieri di guerra, costruito a Görlitz prima dello scoppio del conflitto come campo della gioventù hitleriana. È stato il nipote Aldo Ramazzotti, 79 anni, a fare luce sull’intera vicenda, visto che perfino la sua famiglia non sapeva con esattezza cosa fosse accaduto.

La storia del muggiorese Alberto Capra, il lavoro di ricostruzione del nipote Aldo Ramazzotti
«Subito dopo la guerra, era così – spiega – la gente non aveva voglia più di parlarne, c’era stata troppa morte, e adesso invece bisognava vivere, perciò a nessuno andava di approfondire. Per la mia famiglia lo zio Alberto era morto e basta». Così, dopo più di ottanta anni, la storia di Alberto Capra è riemersa dalle pagine ingiallite dei documenti reperiti nell’Archivio di Stato, oltre che attraverso un sito tedesco da cui è iniziata la ricerca per capire dove fosse stato imprigionato Alberto, dopo l’8 settembre 1943: «Sapevamo poco di ciò che gli era successo – racconta Ramazzotti – Mio zio Alberto si era sposato con Rosa Radice il 6 aprile 1940, ma dopo soli otto mesi di matrimonio era stato richiamato alle armi e costretto a raggiungere il 63esimo Reggimento Fanteria, come meccanico e tornitore. Era il 6 dicembre, non è più tornato e non si sono mai più rivisti».
La storia del muggiorese Alberto Capra, si allontanò dal campo senza permesso e documenti per tornare in famiglia
Alberto Capra è castano e, benchè sia alto solo 1,65, è muscoloso; ha fatto la prima elementare ed è un meccanico. Parte da Brindisi per raggiungere la Grecia l’antivigilia di Natale del ‘40 e il 24 dicembre sbarca a Valona. Nulla sappiamo sui suoi spostamenti nei successivi due anni, fino ad una sorprendente nota del 2 ottobre 1942 all’interno del suo fascicolo in cui è registrata una punizione con l’acronimo CPR, ovvero carcere di rigore. Perché? «Alla vigilia della partenza per trasferimento – leggiamo nei documenti dell’esercito italiano – si allontana arbitrariamente dal campo per recarsi in famiglia e a tal uopo viaggiava in ferrovia sprovvisto di documenti».
L’arresto avviene, dunque, alla frontiera a Trieste, in treno: «Credo che mio zio volesse tornare a casa per rivedere sua moglie, per nessun altro motivo altrimenti avrebbe sfidato la corte marziale». D’altra parte anche Mario Rigoni Stern lo ha spiegato bene: «Era una mattina luminosa d’estate e il ricordo di quel bacio, di quel mattino, mi fu di grandissimo aiuto nei giorni dove in tanti morivano».
La storia del muggiorese Alberto Capra, catturato dai tedeschi nel settembre 1943
Alberto Capra, però, non finì davanti alla corte marziale ma fu rispedito al fronte. Il 20 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi e venne internato in Germania: «Non trovavo alcun documento su di lui, come se non fosse mai esistito – prosegue Ramazzotti – Il motivo? È necessario inserire il nome dei genitori dell’internato e io sono sempre stato convinto che mio nonno si chiamasse Francesco, tutti lo hanno sempre chiamato così!». Invece il nonno di Ramazzotti e padre di Alberto Capra si chiamava Luigi: «È stata una vera scoperta».

Così i documenti sono saltati fuori: Alberto Capra venne spedito a Görlitz, che era un campo di smistamento e quasi subito, il 15 aprile 1944, finì in infermeria, dove morì di malattia il 16 settembre 1944 «ed è abbastanza singolare il fatto che fu sepolto nel cimitero di Görlitz, con una piccola stele e il nome». Negli anni ’50 i suoi resti tornarono a Muggiò e vennero seppelliti nel cimitero cittadino «ma l’atto ufficiale di morte fu redatto a mano dal sindaco Edoardo Silva solo vent’anni dopo, nel 1964. Il primo dei miei cugini porta il suo nome e questo significa che la notizia della sua morte in realtà era arrivata subito». E la sua Rosetta? «Zia Rosa – conclude Ramazzotti – restò in famiglia ancora per alcuni anni, poi nel ’48 si risposò: era solo una ragazza, allora. Eppure quando la nostra famiglia celebrava qualcosa di importante, zia Rosa era sempre invitata e non mancava mai, insieme al nuovo marito». Ma di certo non ha mai dimenticato il suo Alberto, per il quale era stata l’unico motivo di salvezza. Ha scritto Erich Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale: «Amore, pace, sicurezza: erano parole che avevano smesso di significare qualcosa. Finché non vidi i suoi occhi. Allora tutto tornò vero».