Marchesa Casati, la donna che voleva essere arte

Fino all’8 marzo a palazzo Fortuny di Venezia la mostra dedicata a Luisa Casati, la donna che voleva essere arte: splendore e rovina della marchesa che ha incantato un’epoca e ha sedotto i più grandi artisti della Belle époque.
Marchesa Casati, la donna che voleva essere arte

Atto primo, scena prima, interno sera: una donna entra nel foyer con il passo sovrano e certo di un corpo più lungo che alto. Ha le pupille rese enormi dalle gocce di belladonna, i capelli di un fulvo innaturale, la bocca dura, larga e sostenuta. È vestita di piume. No: non è un vestito di piume, sono piume incollate sul corpo quelle che ondeggiano piano mentre entra al teatro dell’opera.

Non sa – o forse sì – che il calore della sala farà cedere le piume, che si abbandoneranno morbide verso il parquet lasciandola nuda, sotto gli occhi abituati allo stupore di chi la circonda.

Atto primo, scena prima: perché di questo si tratta, di uno spettacolo durato tutta una vita. Con una sola protagonista, la marchesa Luisa Amman in Casati, e un solo pubblico, il suo: il resto del mondo. Quel “Casati” se l’era guadagnato a diciannove anni diventando moglie di Camillo Casati, di Muggiò, rampollo di una schiatta che arrivava da lontano e avrebbe lasciato il segno, tra notabili e ministri del Regno, in una larga fetta della storia d’Italia. Ma il sangue blu ai Casati serviva a poco senza sostanze, quelle che la più ricca ereditiera d’Europa, Luisa Amman, aveva in cassaforte dopo la scomparsa precoce di quei genitori italo-austriaci.

I luoghi di una vicenda che palazzo Fortuny di Venezia racconta fino all’8 marzo (coprodotta dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e da 24 ore Cultura – Gruppo 24 ore): Milano, Arcore, Muggiò, Monza, prima di partire per Roma, Venezia, Parigi, Londra. Lì si trovavano le case di Camillo e Luisa Casati. Gli anni: dal 1900, l’anno del matrimonio, al 1914, quello del divorzio, il primo in Italia. Questa è la stagione in cui l’esistenza della marchesa prende corpo, quando matura in lei quella volontà dichiarata di trasformare la propria «vita in un’opera d’arte». Di fronte a tutto e tutti, di fronte al successo e alla rovina. E alle spalle di quella figlia nata nel 1901 di cui non sarà mai davvero madre e che diventerà, per le seconde nozze di Camillo, sorellastra del Camillino che mise più o meno fine a quel ramo della famiglia con due colpi di fucile, prima che villa San Martino finisse a Berlusconi. Altra storia, altra epoca, altri scandali.

Quelli di Luisa Casati, la Marchesa, sono l’epitome e l’epitaffio di un’altra epoca. E di un mondo forse scandalosamente meno volgare. Che la graphic novel “La Casati” di Vanna Vinci è tornata a raccontare di recente. La musa dei pittori, prima quelli italiani, poi all’estero, capace di collezionare centrotrenta ritratti di sé, firmati da Boldini, Boccioni, Depero, Balla e Augustus John, Kees Van Dongen, Romaine Brooks, Ignacio Zuloaga, Drian, Alberto Martini, Alastair e Man Ray, Cecil Beaton e del barone Adolph de Meyer. Il cardine inizia a ruotare nel momento in cui diventa amante di Gabriele D’Annunzio.

Era ancora sposata con Camillo Casati, ma non era una relazione che nella nobiltà di allora suscitasse particolare sdegno. Una delle tante, forse un po’ più sfrontata. Lui scrive di lei, la ribattezza Coré. Lei cambia.

Non sarà mai più la stessa, inizierà quella corsa contro tutto e tutti che la spingerà a voler stupire, apparire, essere guardata sempre di più, con ostinazione e disincantato disinteresse verso tutto quello che era materiale, anche nella rovina. Che arriva presto: in un ventennio. Intorno al 1930 i 25 milioni di dollari di debiti la porteranno alla bancarotta, tutti i suoi averi venduti, molti ritratti dispersi, la sua fine confinata in una stamberga a Londra dove finirà i suoi giorni, nel 1957.

Negli anni Venti aveva giocato le sue ultime fortunose carte vendendo quello che le restava di uno dei più importanti patrimoni europei: proprietà, le azioni delle aziende del padre, case, ville, anche a Monza. È la parabola della Belle époque che affoga definitivamente nell’abisso della Seconda guerra mondiale.

Quello che brilla e che l’ha trasformata in leggenda è tutto nei vent’anni precedenti. Nelle feste faraoniche e nei costumi pensati per stupire, nelle passeggiate nuda in piazza San Marco a Venezia con il cammino illuminato dalle torce portata da servi neri, nei capelli colorati, anche tigrati di verde, nel distacco verso qualsiasi convenzione sociale. I racconti parlano delle sue comparse con solo un pitone (vivo) al collo, delle camminate con le pantere al guinzaglio. Oppure dei levrieri bianchi e neri per essere intonati all’arredamento, incipriati color malva per adeguarsi al cappello scelto per la sera. Delle piccole follie quotidiane: gli abiti disegnati da Bakst, il costumista del teatro russo parigino, gli animali esotici, i ritratti sempre più costosi ed enormi.

Nell’acquisto di palazzo Venier a Venezia (oggi è il Guggenheim) e del Palais rose a Parigi. O quel costume da San Sebastiano, un’armatura in metallo con tanto di frecce che si sarebbe dovuto illuminare, attaccato a un presa elettrica. Un corto circuito quasi la uccide. «Colpa del tè che stava bevendo» dissero le cronache mondane. «Falsità – reagì lei – io bevo solo champagne».